Maggio 2009. Entrano i reali di Giordania. Il Centro congressi di Amman è gremito dei partecipanti al Forum economico mondiale per il Medio Oriente. In prima fila c’è la classe dirigente «moderata» araba, a cominciare dal segretario generale della Lega, Amre Moussa. Sul palco sono appena saliti i dieci finalisti del concorso per «giovani imprenditori sociali». La sfida: «fare affari» a partire dall’impegno nell’assistenza, l’educazione, la lotta alla disoccupazione. Ragazzi e ragazze sorridenti offrono una foto di famiglia dell’Oriente arabo più promettente: la libanese in minigonna, l’iracheno con la cravatta rossa, il palestinese con la kufia nera, l’egiziana rotondetta e velata… I primi quattro avranno un premio di 50mila dollari. Ma ecco la sorpresa! Il re fa un cenno, un signore bisbiglia all’orecchio dello speaker: il premio va a tutti e dieci! Come nelle favole. A cena mi trovo tra un inglese convertito all’islam e una coppia di francesi ipercattolici. «Vale la pena venire, e non solo per l’offerta d’aggiornamento. È un’ottima occasione d’incontro con operatori economici di buon livello». «E affidabili?», chiedo. «Sì, in generale si tratta di persone serie e positive». I fondatori del Forum di Davos, i signori Schwab, parlano molto di valori, soprattutto ora con la crisi. La formula è attraente: fare in modo che le élite economiche siano attirate dalla dimensione morale e interagiscano con i politici in vista del bene comune. La regina Rania è intervenuta a una tavola rotonda sullo sviluppo sostenibile. Nessuno è insensibile al fascino della corona democraticamente invisibile di questa giovane benefattrice araba. M’impressiona l’intensità con la quale propone di allargare il proprio ego e trasformare il desiderio d’autorealizzazione in una prospettiva di solidarietà. I discorsi politici sono infiammati, pessimisti, angosciati. Sembra a tutti evidente che Israele non vuole pagare nessun prezzo per la pace. Un signore per bene si alza a chiedere: «Come fare? Non abbiamo più voglia d’andare in guerra, eppure solo la guerra può restituirci il nostro diritto!». Nonostante la penosa tensione tra sciiti e sunniti, il sentimento comune è che comunque bisognerà resistere ai progetti sionisti, specie ora che la destra israeliana pare si orienti verso la purificazione etnica. La coscienza moderata è perplessa e stretta tra l’inevitabilità dello scontro e la necessità di mobilitare gli estremismi per poterlo sostenere. Le belle dichiarazioni di Obama e dei suoi hanno per ora un sapore oppiaceo. Un alto funzionario occidentale, un diplomatico raffinato che conosco da anni mi sussurra: «Lasciamo alla guerra una chance!». Gli rispondo che c’è forse da rallegrarsi, invece, che le atomiche e il loro potere deterrente tolgano alla guerra le sue opportunità! Ma le testate atomiche non possono fermare la resistenza «terroristica». Bisognerà tenerne conto. Un diplomatico arabo ha gridato: «L’Occidente crea le condizioni perché si sia tutti travolti da quelli di Ben Laden». Amre Moussa è sbottato: «Visto che non accettano i due Stati in un modo vivibile per i palestinesi, allora pazienza, sia un solo Stato, dove gli arabi sono maggioranza. Si arrangi l’occupante!». Già si sente dire però che i palestinesi si possono trasferire tutti in Giordania. Si accumulerebbe così abbastanza odio da terrorizzare il mondo per secoli. Occorre renderci conto che siamo tutti figli e complici della violenza «sacra». Anche noi religiosi. Basta con la pagliacciata delle «religioni della pace» che benedicono arsenali e guerre! Basta con i valori di facciata! Proviamo a mantenere aperte al quotidiano le passerelle del dialogo, la possibilità del perdono senza stupide superiorità e pretese oggettività. La scomunica dei violenti in realtà li moltiplica. Il voto di nonviolenza di alcuni e la fragilità degli inermi testimoniano un’alternativa possibile. Una ragazza israeliana ha detto al microfono: «Dovremmo cominciare con il chiedere scusa!». E per un istante un fremito vitale ha percorso il mare. *** Fine giugno. Rileggo questo testo dopo l’incoraggiante discorso del Cairo del presidente Usa e dopo il colpo di Stato elettorale iraniano e l’inizio d’un movimento nonviolento di resistenza. Notizie contraddittorie giungono dal Pakistan, dalla Somalia. Sento il bisogno di sottolineare che il filo conduttore di quest’articolo è osservare l’islam moderato e borghese, addirittura aristocratico: perfettamente complice della globalizzazione occidentale, sincero negli slanci di dialogo e di apertura, e tuttavia condannato, dal di dentro e dal di fuori, alla violenza. Come porsi come lettori di Popoli? Come monaci e monache, pacifisti e nonviolenti? Tirarsi fuori è impossibile. Chi creerà le occasioni del dialogo tra i violenti? Come far sì che le strutture simboliche che ora spingono alla guerra possano veicolare la pace?
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