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Cinema e Popoli
Luca Barnabé
Critico cinematografico
Miracolo a Le Havre
Le Havre, Alta Normandia. Marcel Marx è un lustrascarpe che vive per l’adorata moglie. Quando questa si ammala gravemente, fa credere al marito di non avere niente di preoccupante. Marcel allora si impegna ad aiutare un giovane immigrato irregolare braccato dalla polizia.
Aki Kaurismaki inquadra un gruppo di lustrascarpe, diseredati, extracomunitari, ammalati, cani randagi, affamati e clochard protagonisti di Miracolo a Le Havre, come fossero angeli rock‘n’roll, Blues Brothers bohémien senza un costume riconoscibile. Fanno del bene gli uni agli altri senza preoccuparsi mai di se stessi. Non a caso Marcel è un ottimo lustrascarpe, ma ai piedi indossa scarpe cenciose e sporche.
L’uomo porta la propria indole-anima inscritta nel nome: Marcel come Carné, il regista caro a Kaurismaki, autore di  Alba tragica (1939) e Les enfants du paradis (Amanti perduti, 1945). Marx come il filosofo tedesco Karl. «Un po’ di socialismo in questo Occidente ultracapitalista arroccato in se stesso farebbe solo del bene», ci ha raccontato il regista all’ultimo Festival di Cannes, dove il film è stato presentato in concorso.
Le Havre (questo è il titolo originale della pellicola, che esce in Italia il 25 novembre) però è tutt’altro che un film ideologico impastato com’è di fiaba, commedia e puro slancio poetico. Al pari di Miracolo a Milano di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini, Kaurismaki sembra dirci che nella giungla del benessere e dell’individualismo più esasperato, che esclude i «poveri cristi», la sola vera forza rivoluzionaria possibile è quella della bontà evangelica.
Non solo. Spesso nei film del regista finlandese l’estetica visiva e di ambientazione rimanda a un’altra epoca. Spiazza e sfasa il nostro sguardo. Anche Miracolo a Le Havre è ambientato oggi, ma sembra svolgersi negli anni Sessanta. Le musiche di Little Bob (divo rock locale), i vecchi juke box, i colori, i neon: tutto ha un aspetto, un colore e un sentire Sixties, senza la spensieratezza di quegli anni. Dell’oggi rimane solo l’anima più buia e conservatrice, almeno nei personaggi negativi e nella polizia. I luoghi più luminosi e dalle luci calde sono le bettole polverose frequentate da Marcel, dignitosi bar frequentati da eccentrici balordi e «angeli» tatuati. Non è certo un caso che l’unico a usare un telefono cellulare in tutto il film sia il vicino delatore (Jean-Pierre Léaud), che avvisa la polizia di aver scovato il ragazzo immigrato irregolare.
Il progresso tecnologico per Kaurismaki non ha alcun senso se non aiuta l’uomo che soffre. Siamo e saremo ingabbiati nel non-tempo del sempre uguale. Almeno fino a quando un gruppo di meravigliosi bohémien ci mostrerà che bontà e fratellanza sono le uniche rivoluzioni che possono spingerci avanti.

© FCSF – Popoli, 1 ottobre 2011