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Cinema e Popoli
Luca Barnabé
Critico cinematografico
Monsieur Lazhar
Dalla neve, dal freddo e dai normali giochi per bambini in un cortile di una scuola elementare di Montréal, la prima sequenza di Monsieur Lazhar si trasforma in uno shock. Il freddo percepibile dell’inverno canadese si fa gelo dell’animo. Una maestra si è appena uccisa in classe in modo tale da farsi trovare dai suoi alunni. Il più crudele dei suicidi: scaricare un senso di colpa infinito sui bambini.
La costruzione dell’incipit è complessa (piano sequenza, ovvero un’inquadratura unica senza stacchi di montaggio, poi campi/controcampi e dettagli). Il corpo della donna contro luce e, fuori fuoco, in lontananza, appena visibile a noi spettatori, appena visibile - eppure evidente - al bambino che lo ritrova per primo, così come ai nostri occhi.
In pochi minuti di ottimo cinema tragico, ma girato con estremo pudore, Philippe Falardeau riesce a inquadrare la fragilità e l’abisso che possono nascondersi dentro una persona sola, capace di trascinare nel proprio vortice di oscurità ed egoismo perfino una scolaresca intera.
Il film (nomination all’Oscar 2012 come miglior film straniero), però, è una storia di rinascita dal dolore e dal buio della «classe morta». È un racconto di resurrezione dei bimbi segnati da quel lutto innaturale, grazie al supplente del titolo, Monsieur Lazhar, immigrato algerino a sua volta segnato da una tragedia famigliare in patria.
Falardeau evita la stucchevolezza e il ricatto emotivo di certo cinema edificante, perché ci fa intuire in maniera diretta ma pudica l’urgenza di tornare a vivere dei bambini e del supplente.
Come un bambino, Bashir Lazhar (interpretato da Mohamed Saïd Fellag, originario della regione berbera della Cabilia) si finge qualcosa che in realtà non è (un maestro) perché, in quel momento, lui più di nessun altro può condividere con quel gruppo di alunni la necessità di ritrovare una normale quotidianità dopo la tragedia personale.
A differenza della preside e del sentire comune delle altre colleghe, Lazhar è convinto di non dovere fuggire o evitare il discorso sulla morte appena vissuta. Sa che il solo modo per elaborare il lutto è prenderne coscienza. Ripensa insieme ai piccoli all’innaturalità del gesto. Poi li inizia alla poesia, al teatro, alle fiabe e alla bellezza delle parole e, per estensione, alla bellezza della vita. Prende sul serio, ma anche in giro i ragazzi, come se stesso. Non cerca di trattare i bambini come bambini, perché, prima di tutto, sono già persone. 

© FCSF – Popoli, 1 ottobre 2012