Home page
Webmagazine internazionale dei gesuiti
Cerca negli archivi
La rivista
 
 
 
Pubblicità
Iniziative
Siti amici
Idee
Cerca in Idee
 
Cinema e Popoli
Luca Barnabé
Critico cinematografico
My Name Is Khan

Da Mumbai a San Francisco. L’America vista attraverso le lenti mélo, coloratissime, fiabesche, strappalacrime e ritmate del cinema di Bollywood, la Hollywood indiana. Dopo i cliché dell’India rivisitata da un occhio fuori sede (ovvero il regista inglese Danny Boyle) in The Millionaire, ecco un suggestivo controcanto dell’Occidente rivisto in chiave Bollywood.
«Il mio nome è Khan e non sono un terrorista», ripete ossessivamente, in un’America ormai ossessionata, il protagonista del film, interpretato dal superdivo indiano Shahrukh Khan (una sorta di Tom Cruise locale). Indiano, musulmano e affetto dalla sindrome di Asperger, una forma di autismo, si ritrova in terra Usa per incontrare il fratello. S’innamora della ragazza-madre Mandira (la fulgida Kajol, altra superstar del subcontinente).
Khan incarna la quintessenza del «diverso», in particolare dopo l’11 settembre. È un po’ Forrest Gump: difforme, ma caparbio. E un po’ Rain Man: ripete parole insistentemente, ha fobie assurde, ma, oltre al cuore fuori misura, nasconde anche molteplici abilità come quella di riparare ogni cosa. Shahrukh Khan ricalca le interpretazioni buffo-tragiche alla Tom Hanks e Dustin Hoffman.
Il regista Karan Johar, autore di Non dire mai addio, trae ispirazione da una vera storia d’amore tra una donna hindu e un musulmano affetto da autismo. L’elemento di fiction, paradossalmente il più verosimile, è l’arresto di Khan perché presunto terrorista dal comportamento sospetto, durante una manifestazione presidenziale.
Se non vi piacciono il cinema bollywoodiano, lo stile didascalico (la musica e la voce fuori campo quasi onnipresenti dal primo all’ultimo minuto), la durata eccessiva (il vero climax della storia arriva dopo un’ora e quaranta di film), lasciate perdere. My Name Is Khan, però, oltre a un innegabile valore narrativo, riesce a mostrare le doppie facce di certe comunità statunitensi: capaci di aprirsi al difforme, quanto di barricarsi in casa. Lo spiritual We Shall Overcome, cantato in inglese dalle donne nere del dopo Katrina, cui si aggiunge Khan in lingua araba, pare un assolo di puro blues cinematografico. Anche My Name Is Khan ha più volti: passa dall’enfasi eccessiva di una madre che abbraccia strillando il figlioletto morto, con la musica urlata in sottofondo, al dettaglio di un altro bambino morto durante Katrina e avvolto, in una frazione di secondo, da un lenzuolo che arriva sui nostri occhi. Le immagini rimangono entrambe nella memoria, ma la seconda ci resta anche nel sangue.
Il cinema come «lanterna magica» per capire, oltre che rivedere, la realtà. Non a caso una delle prime lanterne magiche, la Shambarik Kharolika, è di invenzione indiana e serviva, con il supporto della musica, a illustrare dipinti storico-religiosi. 

 

© FCSF – Popoli, 1 dicembre 2010