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Cinema e Popoli
Luca Barnabé
Critico cinematografico
Offside
I cappelli calati sugli occhi, le guance senza barba, dipinte con i colori della bandiera iraniana, camicie larghissime a nascondere le forme femminili. Non parlano con nessuno per non fare sentire la voce dolce. Qualcuna si finge cieca, gli occhiali scuri a coprire mezzo volto e un bastone bianco in mano.
Sono le donne dell’Iran che cercano di entrare in uno stadio, come ogni tifoso maschio, ma, secondo il regime, non possono. «Perché?», chiede una di loro alla guardia che l’ha appena arrestata. «Perché?!», ribatte l’uomo, sprezzante del ridicolo, «Perché là dentro dicono parolacce e voi non le potete ascoltare! E poi che cosa volete capirne di calcio!». Gli uomini del regime obbediscono agli ordini più assurdi come marionette, anche loro in gabbia: vedono la partita da dietro un cancello, adiacente al recinto delle tifose recluse.
Come ci hanno insegnato Chaplin, Lubitsch, Benigni e l’iraniana Marjane Satrapi con Persepolis (il suo capolavoro a fumetti), le dittature sono tragedie gonfie di elementi ridicoli, surreali e farseschi. Ecco perché anche il grande regista Jafar Panahi sceglie di evitare il tono tragico e racconta la sua storia attraverso la commedia, i guizzi comici, la leggerezza e la farsa.
Un poliziotto tenta una maldestra telecronaca alle prigioniere, le ragazze beffano le guardie, una di loro riesce perfino a fuggire, poi torna per non lasciare sole le compagne e non mettere nei guai i militari che l’hanno in custodia.
Finalmente è uscito anche in Italia, il 14 aprile, lo straordinario Offside (gran premio della giuria a Berlino nel 2006), il film che l’autore ha diretto in tempo record durante la vera partita Iran-Barhain valevole per le qualificazioni ai mondiali di Germania. Il regista ha consegnato una finta sceneggiatura alle autorità ed evitato le vere guardie dello stadio che hanno tentato di bloccare le riprese. Oggi l’autore è agli arresti domiciliari con una condanna a sei anni di reclusione e a venti anni di inattività artistica (per un regista come Panahi equivale quasi a un ergastolo). Le donne di Panahi sono bellissime ribelli, le uniche persone dotate di senso dell’umorismo tra uomini piccoli. Sono ostinate nel conquistarsi ciò che amano e le appassiona: la condivisione, il tifo, lo sport. Vogliono gioire del gioco a cui partecipano i loro padri, i fratelli, gli amici e i mariti. Il calcio si fa metafora potente della condizione femminile iraniana. Il «fuori gioco» del titolo, oltre a quello calcistico, è quello a cui sono costrette tutte le ragazze tifose, che la dittatura vuole escludere dalla festa: in casa a guardare la partita attraverso lo schermo, lontane dalle urla, dalla passione della folla e dal profumo del prato. 

© FCSF – Popoli, 1 maggio 2011