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La sete di Ismaele
Paolo Dall'Oglio
Gesuita del monastero di Deir Mar Musa (Siria)
Onore ai caduti
«Gli americani hanno gli orologi, noi il tempo! »: la frase talebana m’è riferita da una giornalista inviata a Kabul. Con lei commento le irreparabili perdite umane (compresi i 6 militari italiani uccisi il 17 settembre), le elezioni afghane un po’ all’iraniana, la buona coscienza degli occupanti che non si rassegnano ad essere considerati nemico militare. Devono essere sempre forze di pace, liberatori. Certo, onore ai caduti! È chiaro però a molti che la caccia infinita a Ben Laden nasconde antichi disegni egemonici in Asia centrale.
Vorrei parlarvi di un amico di Gandhi, un pashtun, un pathan del nord-ovest del Pakistan, del Waziristan ribelle. Si tratta di Abdulghaffar Khan, soprannominato Badshah Khan, nato nella colonia imperiale britannica (1890) e morto in esilio in Afghanistan (1988), dopo una vita spesa nella lotta nonviolenta per la giustizia e più di un terzo della sua esistenza sofferta prima nelle prigioni britanniche e poi in quelle pakistane. Aveva creato, ispirato da Gandhi, un esercito di votati alla nonviolenza chiamati «servitori di Dio», che si fecero massacrare senza reagire dai britannici e che servirono lo sviluppo agricolo, sanitario e dell’alfabetizzazione. Guardando le loro foto si riconoscono i nonni dei talebani di oggi! Come mai lo stesso popolo ha espresso eroi nonviolenti e poi fondamentalisti armati?
Tanto il potere come la speranza dipendono ormai dalla forza delle armi: quelle dell’alleanza delle borghesie occidentali e quelle della rabbia teocratica dei montanari pashtun. Anche il profeta afro-americano delle possibilità inaudite («Yes we can») non supera la logica militare. Le istituzioni internazionali filoguidate dall’Occidente non credono alla nonviolenza del Mahatma indù e del Badshah musulmano. Le autorità globali esigono la nonviolenza dai popoli oppressi e praticano la logica dei due pesi e due misure, dove le vite umane dei locali non hanno mai lo stesso prezzo di quelle dei «nostri».
Il n. 5/2007 di Limes (rivista italiana di geopolitica) era intitolato La Palestina impossibile e l’editoriale Requiem per uno Stato mai nato. Proponeva di rinunciare alla soluzione dei «due popoli, due Stati», rassegnati di fronte all’espansione delle colonie ebraiche in Cisgiordania. Nell’editoriale del n. 4/2009 si offrono consigli a Obama proponendo di distinguere tra strategia e tattica. Le questioni pakistana e iraniana sarebbero prioritarie giacché il rischio è che l’Iran possa aprire la corsa alla bomba atomica in tutto il Medio Oriente e che i jihadisti possano metter le mani sull’atomica d’Islamabad. Le questioni afghana e palestinese non sarebbero essenziali per la pace mondiale. L’appello finale agli italiani e agli europei è quello di non lasciare soli gli americani poiché noi siamo più vicini di loro alla bocca del vulcano. Le espressioni di Limes mi scandalizzano per il loro cinismo basato su una logica di potere. La dimensione essenziale alla contestazione islamista sfugge del tutto: in nessun modo un progetto di pacificazione della società globale può ignorare la rivendicazione di giustizia delle masse musulmane (non dei regimi «islamici»), nonostante soffra essa stessa di stridenti contraddizioni e derive suicide. Gerusalemme resta il centro simbolico non aggirabile di questo conflitto e dunque il crocevia d’ogni sforzo di pacificazione tra Islam e Occidente.
Obama, nel suo discorso all’Onu del 24 settembre, offre elementi di speranza: anzitutto il divieto della tortura, poi la conferma che le truppe americane lasceranno l’Iraq entro il 2011. Per l’Afghanistan ancora nulla di nuovo, ma per Palestina e Israele ha compreso la necessità d’imporre una soluzione. Sottolinea che gli Usa non accettano come legittima l’espansione delle colonie israeliane. Riconosce che c’è una questione «frontiere», una «rifugiati» e una «Gerusalemme». Cede peraltro alla logica della destra israeliana riguardo allo «Stato giudaico», anche se domanda sicurezza per gli israeliani non ebrei, dunque arabi. Per lui l’obiettivo è chiaro: creare una Palestina indipendente e vivibile. Allo stesso tempo non lascia cadere la necessità di pacificare Israele con Libano e Siria. Conclude che siamo tutti figli di Dio. È l’insegnamento incarnato nelle tre grandi «fedi» che chiamano un piccolo pezzo del pianeta «Terra Santa». È chiaro per lui che Gerusalemme deve costituire il centro della strategia negoziale. S’impegna a proseguire il suo sforzo di pacificazione. Obama ha capito che è a Gerusalemme che si giocano le questioni nucleari iraniane e pakistane. In questo supera tanto il cinismo della vecchia Europa quanto gli escatologismi armati dei neo-con di Bush Jr.
La Gerusalemme che sogniamo è quella in cui la santità sarà frutto di comunione, dove i fratelli porteranno testimonianza al tesoro deposto dal Santo, l’Unico, nel cuore d’ogni tradizione. La Città risplenderà di pace per le Nazioni se riapprenderà il segreto dell’ospitalità.

© FCSF – Popoli, novembre 2009