Home page
Webmagazine internazionale dei gesuiti
Cerca negli archivi
La rivista
 
 
 
Pubblicità
Iniziative
Siti amici
Idee
Cerca in Idee
 
La sete di Ismaele
Paolo Dall'Oglio
Gesuita del monastero di Deir Mar Musa (Siria)
Primavera anno 1: emerge l'islamismo
La punta di lancia e il fattore scatenante del vasto processo di riforma in senso democratico dei Paesi arabi è stato quello dei giovani della generazione di Facebook mossi da un forte bisogno di promozione dei diritti e della dignità umani. Tuttavia, a un anno dall’inizio di questa lunga e ormai sofferta primavera, occorre rilevare la sempre più marcata emergenza dell’islamismo politico nelle sue diverse tendenze.

In Tunisia, in Egitto, in Marocco, in Giordania, delle elezioni sostanzialmente libere hanno democraticamente consentito ai partiti islamici di diventare partiti di governo. In Libia è evidente la presa di potere da parte dell’Islam politico, vittorioso della guerra civile con l’aiuto occidentale. In Yemen e in Siria i giochi non sono ancora definiti, ma gli osservatori prevedono che la democrazia porterà avanti comunque gli attori islamisti.

In Algeria  gli islamici avevano già vinto le elezioni del 1992. Poi la democrazia naufragò in guerra civile e repressione militare. I palestinesi di Hamas  vinsero nel 2006 le elezioni, ma furono defraudati di quella vittoria dallo Stato d’Israele e i suoi alleati.
È evidente che le cancellerie occidentali hanno deciso di non opporsi più a questo processo e di rassegnarsi al ruolo di protagonista dell’islamismo emergente. In effetti la cosa non è del tutto nuova. Basti pensare all’alleanza anticomunista con l’islamismo afgano e pakistano negli anni ’80 e a quella antiserba nella Bosnia e nel Kosovo degli anni  ’90, anche con la partecipazione di volontari gihadisti di tutto il mondo.

Le cocenti sconfitte militari e culturali delle armate occidentali in Afganistan e in Iraq - nonostante si sia concesso tutto alla logica dello «Stato islamico» sul piano costituzionale - consigliano anch’esse un approccio più morbido, lungimirante e paziente nel trattare con l’evoluzione del protagonista politico «islamista». Penso per esempio alla Somalia…

Anche i Paesi del Golfo e l’Arabia Saudita - che sembravano  guadagnati definitivamente al consumismo più sfrenato, unito al totalitarismo dinastico tradizionalista musulmano più o meno wahabita - devono confrontarsi con nuove esigenze orientate alla maturazione democratica e organicamente collegate con l’evoluzione del Mondo arabo nel suo complesso. Basti pensare al ruolo diplomatico del Qatar unito al suo progresso interno e alla grande attività mediatica di cui il canale tv al-Jazeera è il simbolo più noto mondialmente.

Sarà difficile per una dittatura militare totalitaria come quella algerina resistere al tornado democratico arabo potenziato dalla decisione strategica americana e atlantica… La prospettiva occidentale - tanto quanto non è dettata da urgenze elettorali - sembra obbedire a tre criteri: il primo è farla finita coi regimi militari dell’epoca post-coloniale; il secondo è favorire un’evoluzione morbida dei regni arabi verso la monarchia costituzionale (con un ruolo da capofila per le due monarchie più esposte ai movimenti di rivendicazione sociale: il Marocco e la Giordania); il terzo è evitare - seppur con alti costi umani - l’ulteriore espansione dell’Iran sciita nel Golfo. La rivolta degli sciiti del Bahrein è stata soffocata nel sangue ma l’alleanza degli emiri sunniti con i sauditi e l’Occidente ha tenuto. 

In Africa Subsahariana la logica è un po’ diversa. Si va infatti prendendo atto che mettere insieme in una stessa società post-coloniale due gruppi più o meno equivalenti, uno musulmano e l’altro, diciamo, cristiano-animista, è impossibile senza continui e sanguinosi scontri dovuti proprio alla concorrenza fra i due gruppi impegnati, su modelli divergenti, nell’emancipazione e la maturazione civile. (Ciò non significa che i conflitti d’Africa siano sempre religiosi… è piuttosto l’elemento etnico-razziale a dominare; basti pensare al Rwanda «cristiano» e al Darfour sudanese «musulmano»). In questo quadro, la secessione sud-sudanese sembra proprio obbedire a un doppio criterio: ridurre lo spazio strategico dell’Islam e nel contempo favorirne lo sviluppo democratico interno. Forse verrà il turno del Ciad, della Nigeria, ecc.

È innegabile che questo vasto processo arabo di democratizzazione non è indenne dalle influenze di interessi esterni. Uno di questi è quello confessionale, strategico e regionale iraniano. In effetti l’Iran è stato protagonista della prima grande rivoluzione «democratica» islamica. Quella repubblica, già nata difettosa sul piano dei diritti umani, sembra oggi scivolare sulla china del degrado totalitario. L’Iran agisce sulla base di tre agende apparentemente contraddittorie. La prima è l’agenda sciita. Qui la solidarietà con tutto ciò che, molto o poco, si può riportare a tale alveo simbolico è prioritaria e definisce le alleanze e le intromissioni iraniane all’estero. La lista è lunga: Iraq, Siria, Libano, e poi le tendenze secessioniste o emancipatorie in Kuwait, in Bahrein, in Arabia Saudita, Yemen… Occorre aggiungere la protezione delle minoranze sciite in Afganistan e Pakistan… La seconda agenda è quella dell’islamismo rivoluzionario e gihadista che viene sostenuto ovunque possibile,  specie a causa della dimensione, cara ai movimenti sciiti, di promozione dell’emancipazione delle classi più sfavorite della compagine sociale. Si ha qui saldatura tra esigenze ex-marxiste e aspirazioni neo-islamiche. L’esempio del movimento palestinese sunnita Hamas, che ha trovato nell’Iran il suo alleato più impegnato, è tipico (anche se oggi Hamas reintegra la logica “fratelli musulmani” in senso proprio, sicché è recuperato dai “fratelli” egiziani).  Sta il fatto che l’Iran si è schierato con la primavera araba, in quanto la ritiene una forma di rivoluzione musulmana … nella misura in cui non confligge con l’agenda numero uno. La terza agenda è quella persiana tipicamente nazionalista. Il simbolo di quest’attitudine è a mio parere il progetto atomico. Sotto quest’aspetto ci si può attendere che l’Iran mostrerà una capacità negoziale a tutto raggio al fine di promuoversi al rango di potenza nucleare regionale.

La questione israeliana resta incombente, benché sullo sfondo del nuovo movimento arabo. L’emergenza dell’islamismo politico non è una buona notizia per lo Stato sionista benché lo confermi nella sua tendenza a diventare sempre di più uno «Stato ebraico», comunque si voglia intendere questa connotazione (etnica, religiosa, culturale). Sono convinto che a lungo andare, e non solo in prospettiva escatologica, l’Islam politico - ben più delle ideologie nazionaliste post-coloniali - goda d’una riserva concettuale e simbolica che gli permetterebbe d’integrare armoniosamente, all’interno del mondo arabo-musulmano, un “quartiere-stato” ebraico sovrano.

È indubbio che, se si guarda alle tendenze radicali dell’Islam in tanti paesi (Afganistan, Pakistan, Somalia … gli esempi non mancano) si può essere molto preoccupati – almeno a breve e medio termine – sul futuro dei diritti umani negli stati musulmani e quindi sul futuro delle minoranze cristiane che talvolta vi si trovano. L’esempio iracheno è il più noto e complesso. Ma anche la questione copta non è di facile soluzione.

Occorre qui ricordare che di correnti islamiche politiche ce ne sono diverse, con diversi livelli di «moderazione». L’Islam politico turco è un po’ il portabandiera d’una nuova capacità musulmana di calarsi volontariamente, cordialmente, nello stampo dello stato civile e pluralista moderno anche se non necessariamente laico.
Non si può negare che i movimenti legati ai Fratelli musulmani sono in generale abbastanza radicali … Ma la primavera araba qualche cambiamento in profondità l’ha già provocato e il più importante è proprio una specie di conversione alla forma democratica - seppur non laica e secolare - della vita civile. (Per analogia europea mi viene in mente la progressiva conversione alla democrazia dei cattolici e poi dei partiti comunisti).

Esistono inoltre dei movimenti estremisti fondamentalisti, chiamati genericamente «salafiti» («tradizionalisti» non tradizionali) o «gihadisti», disposti qualche volta a salire sul carro rivoluzionario e democratico in corso ma portatori d’un progetto, per ora, sostanzialmente totalitario. Con molta ragione i cristiani mediorientali hanno una paura blu di questi movimenti sunniti radicali che sembrano incapaci di prolungare la tradizione multisecolare di buon vicinato islamo-cristiano. Tuttavia questi islamisti estremi sono generalmente minoritari. Il guaio è che sono anche facilmente guadagnabili a una logica terrorista dove contano poco i numeri! Dopo la tragedia irachena (dove i cristiani si son trovati tra l’incudine dell’occupante americano e il martello dell’islam gihadista) e le sofferenze dei copti (non sempre indenni essi stessi da logiche integraliste violente), è difficile consigliare ai cristiani mediorientali di dar fiducia all’evoluzione democratica dell’Islam radicale. Le foto e gli striscioni di Bin Laden branditi dai manifestanti islamisti non possono che preoccupare… eppure chi non risica non rosica! Come si fa a ripetere frasi del tipo «non son degni di democrazia», «bisogna tenerli sotto», «sono animali feroci». Il ragionamento resta appeso, nel concreto, all’evoluzione delle dinamiche politiche dei paesi interessati. Ma alcune soluzioni sembrano ormai escluse dalla storia.    

Presto l’Afganistan sarà restituito ai talebani… Certamente questo rischia di rafforzare il progetto salafita anche nell’area mediterranea. Penso però che non c’è alternativa all’autodeterminazione dei popoli. Il che non significa che non si possa poi favorire quell’evoluzione che una maggioranza degli umani auspica, per esempio nel senso del rispetto dei diritti dell’uomo. La protezione delle specificazioni geografiche (senza scadere nei golpismi secessionisti favoriti dall’estero) può, a volte, salvare capra e cavoli, trattenendo l’espansionismo radicale attraverso il rafforzamento delle particolarità etnico-culturali. In questo senso, l’emergenza dello spazio kurdo è riconosciuta come favorevole ai «valori democratici». (È interessante notare che l’Islam moderato turco, con la sua attitudine «ecumenica»,  è più bravo del vecchio nazionalismo turco laicista e militarista nel gestire la questione kurda e sembra addirittura in grado di riaprire positivamente la questione armena.).

La Chiesa mediorientale si era tutto sommato armonizzata bene con il nazionalismo arabo secolarizzato, nonostante la continua emorragia verso l’estero dei battezzati. Oggi questo equilibrio è rotto e cade. Certamente per i giovani cristiani che partecipano alla primavera c’è il rischio d’una grande delusione quando, attraverso le elezioni, il movimento islamico prenderà le redini della cosa pubblica. Sono convinto che questo rischio democratico vada corso anche a costo di soffrire a breve termine un aumento dell’emigrazione dei cristiani locali. Non è più possibile essere i protetti del «Sultano»; occorre ottenere il rispetto, in spirito di buon vicinato, del protagonista popolare islamico riappropriatosi della sua sovranità. Si apre così un vasto campo, anche propriamente apostolico, di partecipazione (pur sopportando ristrettezze giuridiche e forche caudine costituzionali) alla vita comune delle nostre società. La storia dell’Islam lo dimostra: si prende il potere con il radicalismo settario ma poi lo si mantiene attraverso un’evoluzione che tende chiaramente alla moderazione e alla conciliazione. Per quanto mi riguarda questa scelta l’ho fatta tanti anni fa: perseguire una relazione franca e costruttiva con il partner, anche politico, musulmano partecipando al suo sviluppo endogeno. È proprio da questo sguardo cordiale rivolto al concittadino musulmano che emerge una specificità cristiana, accettata spesso come preziosa dai musulmani stessi, e si apre dunque una prospettiva di presenza evangelica secondo il modo del lievito in grado di favorire la fermentazione di tutta la pasta.
Ad Assisi in Ottobre, il Papa ha tenuto a ribadire l’incompatibilità tra religione e violenza. È più facile capire questa posizione a livello di progetto che d’analisi poiché, è un fatto, la violenza è parte integrante di tutte le nostre storie religiose. Si risponderà che questa incompatibilità è di natura categoriale. Penso che faremo bene a smettere di accusare il progetto musulmano d’essere violento in radice mentre poi gli arsenali dei paesi di “radice cristiana” sono pieni d’ogni satanico strumento di morte. Meglio sarebbe proporre invece ai musulmani di partecipare a una società mondiale smilitarizzata.  Elaboriamo con loro un’antropologia e una politica  che tendano alla sublimazione dell’aggressività umana attraverso la vita spirituale.

Alcuni anni fa fui invitato a un incontro «ecumenico» inter-musulmano. Mi fu data la parola e dissi che, in quanto religioso cristiano filo-islamico, l’armonia tra sciiti e sunniti mi stava a cuore quanto quella tra le Chiese perché, sostenni, il servizio dell’unità non si divide. Non si tratta di unirsi di fronte alla minaccia altrui, ma di mettersi, con realismo idealista, al servizio dell’unità e dell’armonia come un bene di tutti e per tutti!
Riprendo e chiudo con un riferimento alla mia regione. Rattrista, preoccupa ma non meraviglia la deriva dei conflitti confessionali intermusulmani. Le elezioni egiziane sono una vera manna per chi vuole agitare lo spettro dell’estremismo sunnita rampante.

Occorre che si sia in grado di fornire una serie di autentiche e autorevoli garanzie alle minoranze nel processo di democratizzazione. Per cristiani ed ebrei non è alla fine così grave: si paga la jizia (la tassa dei protetti, dhimmi, cristiani, ebrei e sabei), ci si mette il velo, un bel muro davanti alle chiese e via ... (mi si perdoni l’accento cinico!) Il problema vero è per le minoranze musulmane. Quelle si trovano come i catari in Francia. Sono guai seri! In Egitto quelle minoranze non ci sono (anche se i «sufi» non so come se la passeranno). Ma, altrove, sì,  ci sono e sono disponibili a stringere i denti pur di non "ritornare" a una situazione di clandestinità e inferiorità. Cosa dicono i salafiti, «i fratelli» e i moderati? Perché non si mobilitano per dichiarare cosa faranno delle minoranze sciite (in senso lato) se e quando avranno vinto? Si dice: «prima vinciamo e poi vediamo»... È una pessima politica.

Che i musulmani vogliano vivere secondo la shari’a è certamente un loro legittimo desiderio. Ma che gli altri non desiderino assecondarli si capisce pure! I comunisti la pagarono carissima dopo la vittoria di Khomeini in Iran. Me li ricordo io rifugiati sui marciapiedi romani. E quelli erano i fortunati! Gli sciiti di Bahrain soffrono non poco.
Allora? Subito, ora, uno spazio negoziale per la redistribuzione del potere sulla base d'un «accordo sacrosanto» (garantito dal deterrente armato presente nelle «specificità geografiche» e da interpretazioni autorevolissime della legislazione musulmana più accreditata). Poi ci vogliono cinquant’anni di lavoro sulla società civile. Tuttavia, finché non si risolve la questione israeliana, sarà sempre facile far volare il proprio sterco in nome di quello altrui!

Nota: Ho rinunciato a parlare espressamente del paese in cui vivo. Non posso prevedere se, al momento in cui questo articolo verrà stampato, la mia ventilata condanna all’esilio sarà stata realizzata o no. È comunque doveroso cercare di evitarla.

© FCSF – Popoli, 2 gennaio 2012