L’assessore alle Politiche sociali di una grande città, governata dal centrosinistra, ha dichiarato recentemente: «Per i rom non spenderemo un euro del bilancio comunale». Probabilmente intendeva dire che gli interventi per la chiusura degli insediamenti abusivi e per dare un’accoglienza dignitosa alle famiglie erano finanziati con risorse dello Stato, mediante un capitolo del controverso piano Maroni di qualche governo fa. Ma l’espressione riportata dai giornali e il contesto, in cui gli esponenti dell’opposizione attaccavano la giunta comunale sostenendo il contrario, rivelano un serio problema, culturale e politico.
La grande maggioranza dell’opinione pubblica è convinta che non sia lecito spendere denaro pubblico per quella che è stata definita la minoranza più discriminata d’Europa. Al punto da non avere titolo per accedere alle pur modeste risorse destinate a persone e famiglie in difficoltà. Il possesso della cittadinanza italiana o europea non basta a scalfire questa condanna preventiva: più dei diritti formali pesa l’esclusione sociale. Le forze politiche in parte fomentano, in parte cavalcano, in parte subiscono questa impostazione: se parlano apertamente di interventi per l’integrazione sociale dei rom, per sottrarli a condizioni degradanti e avviarli all’autonomia e al lavoro, perdono consensi.
Completano il triste scenario certi paladini dei rom, per i quali ogni sgombero è sbagliato per principio, anche quando alle famiglie vengono offerte soluzioni concrete e percorsi di emancipazione. C’è chi vuole lasciare in piedi a tutti i costi le favelas urbane, in cui i bambini contendono il terreno ai topi, limitandosi a qualche intervento di riduzione del danno. E c’è chi teorizza una versione locale delle riserve indiane: per preservare la cultura, istituzionalizzare ghetti semivolontari destinati ai rom.
Di fronte a tutto questo, si cercano operatori responsabili, osservatori seri, e soprattutto politici coraggiosi.
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