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Cinema e Popoli
Luca Barnabé
Critico cinematografico
The Butler
Due ambienti e due realtà americane in netto contrasto incorniciano l’incipit di The Butler di Lee Daniels: l’oggi (apparentemente) ovattato di pace e la segregazione di ieri.
I confortevoli interni contemporanei della Casa Bianca, dove un afroamericano è seduto in attesa, le note del Concerto per pianoforte (Op. 54) di Schumann in sottofondo. Uno stacco di montaggio. La macchina da presa mostra due corpi neri senza vita, impiccati nella notte di un passato non troppo lontano. Le parole di Martin Luther King emergono dal buio: «L’oscurità non può allontanare l’oscurità. Solo la luce può farlo».
Infine, vediamo un campo di cotone in pieno giorno, come un mare bianco sconfinato. Georgia 1926, il piccolo Cecil Gaines, figlio di schiavi, assiste alle violenze perpetrate sulla madre e all’omicidio del padre da parte del «padrone». Cecil scoppia in lacrime. Impara poi a diventare «schiavo di casa», in seguito fugge via. Diventerà cameriere e infine maggiordomo alla Casa Bianca per oltre trent’anni.

Il personaggio di Cecil è ispirato al vero maggiordomo di colore Eugene Allen, che servì otto diversi presidenti, da Truman a Reagan. La vita di Allen è stata raccontata da Will Haygood sul Washington Post nel 2008, a ridosso della vittoria di Obama, primo presidente afroamericano, e poi nel libro The Butler.
Un tema analogo era già stato affrontato dalla serie Tv Backstairs at the White House (Nbc, 1979). Anche l’opera di Daniels, a volte, ha uno stile televisivo. Non risparmia le violenze, ma gli aspetti politici sono sempre piuttosto addomesticati e diluiti negli affetti famigliari inscalfibili. Per molti critici il film è qualunquista, una sorta di elogio dello «Zio Tom», il «buon nero» al servizio del bianco. Il protagonista Forrest Whitaker (come sempre straordinario) ha respinto le accuse sostenendo che «Cecil sa servire senza essere servile».
Il film non riesce, comunque, a essere davvero corrosivo su una atroce realtà americana segregazionista, talvolta ancora attuale. Daniels, autore dell’ottimo Precious, sembra oscillare indeciso tra la politica arrabbiata (il figlio attivista è totalmente inventato per il film) e l’assenza di impegno politico (Cecil non si espone mai, se non in termini di diritti salariali).

La battuta più spiazzante è lo slogan surreale: «Non si fa politica alla Casa Bianca!» che dovrebbe spronare i domestici neri a restare appunto apolitici, al servizio del proprio datore di lavoro anche nel segreto dell’urna. L’eccesso di «cammei» illustri (da Mariah Carey a Lenny Kravitz) dà un aspetto di «artificio Usa» all’intera operazione. Gli elementi di fiction e le digressioni non fanno che distrarre lo spettatore dalla reale anima della Storia: schiavismo, diritti civili, la ferita ancora aperta e sanguinante della violenza razzista americana.
Viene da chiedersi cosa avrebbe potuto essere questo film nelle mani e nello sguardo lucido e spietato di Spike Lee, come sembrava dovesse accadere in un primo momento. Di The Butler restano lo sguardo «da poker», il corpo eretto e pieno di dignità di Whitaker, capace di dare spessore a qualsiasi storia. E la fotografia contrastata dell’incipit, in cui Daniels sembra davvero ammonire lo spettatore a ricordare una violenza recente e incancellabile.


© FCSF - Popoli, 14 febbraio 2014