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Cinema e Popoli
Luca Barnabé
Critico cinematografico
The help

«Come ci si sente a crescere un bambino bianco mentre di tuo figlio a casa si occupa qualcun altro?». «Ho tirato su 17 bambini nella mia vita. Prendermi cura dei bambini bianchi è quello che faccio».
Comincia così The Help di Tate Taylor, tratto dal bestseller di Kathryn Stockett (Mondadori) e arrivato nelle sale alla fine di gennaio, con uno scambio di battute su come sia naturale, nel Mississippi dei primi anni Sessanta, che i discendenti degli schiavi africani continuino, di fatto, a essere schiavi delle famiglie bianche. Allo stesso tempo le donne di servizio, non più definite «schiave», ma più gradevolmente «tate», sembrano le uniche a curarsi davvero dei bambini delle case borghesi, quando i marmocchi sono sporchi, quando vomitano, quando non sono sufficientemente «belli» o «normali», secondo i canoni delle madri wasp cotonate e super laccate.
Una ragazza bianca dello Stato del Sud (Emma Stone) decide di raccogliere le testimonianze di un gruppo di domestiche afroamericane e di pubblicarne un libro. Per la città di Jackson è uno scandalo.
Come il romanzo della Stockett, anche il film di Taylor non convince del tutto. Entrambi gli autori sono bianchi, mentre un punto di vista davvero «nero» o «afroamericano», dunque «vissuto sulla propria pelle», sarebbe parso sicuramente ancora più sentito e sincero. Probabilmente, però, questa storia di rabbia sopita non avrebbe avuto lo stesso successo (negli Usa ha incassato quasi 170 milioni di dollari e un Oscar per Octavia Spencer come migliore attrice non protagonista).
Eppure, a differenza del romanzo, il cui impasto di lingue (lo slang sgrammaticato degli afroamericani e l’inglese più scolastico delle donne bianche) suona spesso ripetitivo e calcolato, scene e dialoghi di The Help riescono più volte a disturbarci e colpirci. Nonostante i colori pastello, gli abitini d’epoca Sixties, le Cadillac rosa, gli Stati Uniti del Sud di quegli anni a tratti richiamano maledettamente l’Italia di oggi. Un sentire e un agire diffuso, un razzismo strisciante sbandierato in nome dell’«antibuonismo» e di una presunta «scorrettezza politica». La spudoratezza con cui alcune signore borghesi del film si sentono autorizzate a teorizzare il rischio delle malattie nel condividere il bagno di casa con le domestiche di colore non possono non farci pensare alle teorie sulla «difesa della razza».
Taylor riesce a imbastire un mosaico spesso suggestivo sulle contraddizioni dell’America del tempo: lavora bene con le immagini e con le proprie formidabili attrici, su cui spicca la strepitosa e «insopportabile razzista» Bryce Dallas Howard.
I quadretti alla Norman Rockwell delle sorridenti famiglie borghesi stridono con il razzismo diffuso e introiettato da quasi tutti gli uomini e donne bianchi dell’epoca (su quegli anni è da poco uscito anche lo straordinario romanzo 22/11/’63 di Stephen King, Sperling&Kupfer).
Forse il problema principale del film è l’eccesso di sottostorie e di personaggi secondari: il flirt della protagonista bianca, ad esempio, è davvero pleonastico e al contempo irrisolto. Probabilmente Taylor ha voluto conservare il più possibile la materia del romanzo originale (per inciso, è cresciuto insieme all’autrice negli Usa del Sud), ma le sequenze più efficaci sono proprio quelle che traggono la propria forza dalle immagini e dalla messinscena, più che dalle pagine a tratti verbose del libro.   

 

© FCSF – Popoli, 1 aprile 2012