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Cinema e Popoli
Luca Barnabé
Critico cinematografico
Timbuktu
A Timbuktu la polizia fondamentalista è impegnata a imporre la sua visione della legge islamica: l’equilibrio pacifico locale viene così infranto da regole surreali, da ogni forma di divieto, violenza e dall’imposizione del terrore. Gli estremisti proibiscono la musica, il gioco, la vista di ogni parte del corpo femminile da coprire quotidianamente con veli, turbanti, guanti e calze.

Una famiglia, che vive in armonia tra le dune sabbiose del deserto a poca distanza dalla città, si trova a dovere essere giudicata dagli estremisti in seguito a un incidente violento, ma fortuito.

Abderrahmane Sissako, già autore di opere significative come Bamako (2006) e La vita sulla terra (1998), ha preso spunto da un tragico fatto di cronaca accaduto in un piccolo villaggio del Nord del Mali il 29 luglio 2012, nei mesi in cui il Paese africano è stato travolto dalla ribellione tuareg. Un uomo e una donna sono stati lapidati per avere avuto figli senza essere sposati. L’assassinio della coppia si è consumato sotto gli occhi di tutti gli abitanti del villaggio, come monito per chi trasgredisce le regole degli integralisti religiosi. Quella lapidazione si è svolta invece nell’indifferenza totale dei media e del mondo, che si occupano di cronache dall’Africa solo quando ci sono uomini e donne occidentali rapiti o uccisi. Come se quella parte del mondo non ci (ri)guardasse quotidianamente.

Sissako riesce a scuotere in maniera sottile e mai ricattatoria le nostre coscienze. Immagina una storia analoga al fatto di cronaca del 2012: regole assurde che sfociano nella violenza estrema. Non assume mai toni enfatici e non getta il sangue negli occhi allo spettatore. Il suo film, come la verità tragica e tangibile dell’integralismo, riesce piuttosto a insinuarsi sotto pelle, attraverso l’alternarsi di quadri di serenità e di pace (la famiglia che vive tra le dune e nell’amore, gli abitanti del villaggio pacifici, il desiderio di musica) e di crudezza (jihadisti che appaiono come barbari ridicoli quanto reali).

A Cannes, dove il suo film è stato tra i migliori e più applauditi del Concorso 2014, Sissako ci ha raccontato: «Le persone davvero coraggiose non sono quelle che fanno un film come questo, ma quelle che hanno vissuto davvero sulla propria pelle le vicende narrate da Timbuktu. L’importante è che tutti noi non restiamo indifferenti alla realtà di questi orrori».

L’autore mauritano, ma residente in Mali, non cade mai nel didascalico mostrando la violenza, né nell’estetizzazione dell’armonia, esibendo il fascino e la bellezza di quei luoghi. Si limita a fotografare in maniera vivida, verosimile e concreta una realtà, e la doppia anima dell’uomo, attraverso un linguaggio cinematografico scarno, essenziale ed efficace. Ricorre perfino a un’ironia spiazzante nell’inquadrare la crudeltà dei fondamentalisti. Nell’assurdità delle proibizioni, emblematicamente i jihadisti spesso non si capiscono nemmeno bene fra di loro, in un impasto zoppicante di lingue diverse.

Timbuktu (Premio della Giuria ecumenica a Cannes) non è certo un film antiislamico - il discorso sulla pace e il rapporto con il divino dell’imam locale è illuminante in questo senso -, ma un’opera che destabilizza lo spettatore che non conosce quella realtà, così come chi crede di conoscerla. È un forte grido di allarme, una mano tesa.
La partita giocata senza pallone (tra i tanti divieti assurdi imposti dagli integralisti c’è anche il divieto del calcio) dimostra, infine, che la grazia e la fantasia forse possono infrangere anche le regole più assurde.

© FCSF - Popoli novembre 2014