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Cinema e Popoli
Luca Barnabé
Critico cinematografico
Trieste Film Festival 2011

Fuori c’era una bora tale che i gabbiani sembravano immobili, sospesi nell’aria, o spinti indietro dagli schiaffi del vento e del mare. Nel caldo rifugio del cinema-teatro Miela di Trieste, a pochi metri dal molo 4, così come al cinema Ariston, si sono visti film importanti come lo è il traguardo della XXII edizione del Film Festival triestino, vinta dal regista serbo Srdjan Karanovic con Besa.
Film importanti, perché in un mondo del cinema (e non solo) in cui conta sempre di più la mera forma rispetto al contenuto, le pellicole delle varie sezioni avevano sempre l’uomo - il suo dolore, le sue lotte, la Storia, lo sguardo - al centro delle inquadrature. I registi mitteleuropei, russi e dell’ex Iugoslavia protagonisti della rassegna hanno messo a fuoco tracce di realtà, non solo nella forma del documentario, ma anche quando si sono misurati con la fantasia (Chantrapas di Otar Ioseliani), il sogno (Vedere tutto rosa di Dušan Hanák), l’incubo (My Joy di Loznitsa, nella foto), la fiaba o il cartone animato (ottima la sezione dedicata ai cartoon, in cui spiccano Danza macabra di Koni Steinbacher e Ingoiare il rospo di Jurdis Krsons). Dalle fabbriche di auto coreane che deturpano la campagna e le persone di Tutto per il bene del mondo e di Nošovice, ai campi di educazione all’orgoglio georgiano di Il leader ha sempre ragione, fino alle memorie cinematografiche del maresciallo Tito narrate dal notevole documentario Cinema Komunisto, si sono visti realtà, aneddoti, fatti e persone poco conosciuti.
Tra i titoli più interessanti del festival: il film d’apertura Cirkus Columbia di Danis Tanovic (Oscar per No Man’s Land), storia di un paesino dell’Erzegovina alla vigilia della guerra nei Balcani, e il romeno Se voglio fischiare, fischio di Florin Serban, racconto di carcere, essenziale e sorprendente con una vena poetica e romantica, benché nera, solitamente sconosciuta al genere.
I veri capolavori del festival sono passati nelle rassegne dedicate all’autore slovacco Dušan Hanák (premio Central European Initiative) e al russo Sergei Loznitsa. Emblematico che entrambi abbiano avuto in passato, come oggi, problemi con il potere. Il primo ha firmato negli anni Settanta Vedere tutto rosa, sogno d’amore contrastato tra un giovane postino-mago e una ragazza rom dai piedi scalzi.
Loznitsa è invece autore contemporaneo di documentari assai poco amati dalla Russia di Putin e di un film di fiction visto in concorso a Cannes, in cui la morte violenta pare l’unica fine possibile nella Russia di epoche diverse, dalla prima guerra mondiale a oggi (titolo beffardo: My Joy, la mia gioia). I documentari dell’autore inquadrano, spesso in bianco e nero, volti di persone, scavati dal dolore o dalla malattia mentale, villaggi, autunni, treni, campagne tutt’altro che idilliache.
The Settlement, ad esempio, racconta in bianco e nero un villaggio popolato da persone con disturbi mentali. Non c’è pressoché alcuna parola o dialogo, nessuna voce fuori campo. Pare un film muto, senza didascalie, recuperato dagli anni Venti. Invece è stato girato nel 2001. Gli unici suoni sono il cinguettare lontano degli uccelli, il rumore di un carro o di una trebbiatrice, un muggito, mormorii confusi. Protagonisti assoluti sono i volti degli uomini, sorrisi storti e senza spiegazione, mani che grattano la testa, occhi vuoti o sereni, qualche guizzo di gioia, altri sguardi indecifrabili.
Loznitsa riesce a «parlare» attraverso le immagini delle persone che sceglie di raccontare. Come un fotografo trova l’inquadratura più significativa e come un cineartista monta le immagini che aggiungono senso al film. Lo stacco dal sorriso di un malato all’immagine di una trebbiatrice che viene verso l’obiettivo insinua un senso di pericolo cupo in un luogo che sembra bellissimo, inspiegabile e senza tempo. 


 

© FCSF – Popoli, 1 marzo 2011