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La sete di Ismaele
Paolo Dall'Oglio
Gesuita del monastero di Deir Mar Musa (Siria)
Tsunami
11 marzo 2011 - A Fiumicino ho in mano l’ultimo numero di Limes su guerra di Libia e terremoto geopolitico. Smarrito, osservo sullo schermo le prime immagini della catastrofe giapponese. Alcuni viaggiatori guardano attoniti cercando di telefonare a casa. Tra pochi minuti il loro volo sarà annullato. Stavolta Caracciolo (direttore di Limes) è stato drammaticamente indovino intitolando questo numero Il grande tsunami, ma spero che si sbagli quando critica il «lirismo» di Obama nella gestione della tempesta.
Mentre scrivo, le cancellerie occidentali e quelle arabe discutono della zona di interdizione da imporre all’aviazione di Gheddafi, e i democratici libici sono macellati dai loro connazionali. Avremo due Libie? O forse, sotto-sotto, c’è chi favorisce la vittoria del Colonnello. Se questi cade non terrà il suo compare di Arcore. L’alleanza tra tirannia populista e populismo post-democratico è dura a morire.
Scrivere su un mensile è spiazzante. Quando la storia accelera il mio commento sembra subito antidiluviano. Tuttavia, rileggendo i miei ultimi pezzi su Popoli, colgo come un diagramma della percezione. Il 10 gennaio scrutavo smarrito i prodromi del movimento rivoluzionario ancora sotto shock per l’attentato ai copti a Capodanno, ad Alessandria d’Egitto. Il 6 febbraio, scrivendo «La sete di Ismaele», ero emotivamente in piazza al Cairo. L’11 febbraio Mubarak ha mollato. Ora ci sono documenti che accusano lui e il suo governo di avere ordito l’attentato contro i copti: orrida stampella di un regime al tramonto. Ancora nei giorni scorsi si è tentato di riattivare la strategia della tensione con gli attacchi omicidi al quartiere dei cenciaioli copti della capitale ad opera di estremisti islamici e provocatori controrivoluzionari.
I giovani musulmani, gli eroi di queste settimane, hanno reinterpretato la visione religiosa ereditata dal passato attraverso il nuovo contesto relazionale provvisto da internet, costruendo sulla convinzione ormai recepita che il sistema democratico è l’unica forma di Stato in grado di gestire in modo non violento i conflitti e l’evoluzione sociale. Non si tratta tanto di rinunciare alla dimensione religiosa dell’ideale politico, quanto di denunciare e delegittimare l’uso strumentale della religione da parte di strutture di potere antiquate e corrotte. Occorre tener conto che generalmente quei giovani restano culturalmente sospettosi verso l’Occidente, profondamente anti-israeliani e gelosi della loro identità musulmana. Il desiderio di emigrare in Occidente è di solito dettato da fattori economici e non intacca il quadro culturale e il loro credo nella superiorità dell’Islam. Ciò non significa che gli eventi in corso non abbiano un impatto sull’autocoscienza musulmana. La sua maturazione produce l’isolamento dell’estremismo.
Tornando all’Egitto, le difficili relazioni tra copti e islamisti perdurano e possono peggiorare se i nuovi dirigenti non sapranno assicurare un vero controllo dei facinorosi. Il rischio che si verifichi una situazione irachena non è da escludersi.
In Siria non prevediamo sconvolgimenti. Gli eventi libici convincono i più che la pazienza in questo caso è condizione per un’evoluzione graduale. L’unità del Paese e il suo ruolo nel conflitto regionale richiedono stabilità interna, ma l’allargamento del consenso diventa tanto più necessario quanto più il movimento internazionale va nel senso dell’emancipazione democratica. È probabile che il presidente saprà condurre la transizione.
La gestione di queste emergenze richiederebbe l’assunzione di un’attiva e propositiva posizione non violenta da parte della collettività globale. La tragedia libica è un frutto marcio dell’arretratezza delle relazioni internazionali. Il minor male è oggi la protezione militare internazionale degli insorti, ma a ben vedere occorre rinunciare sul lungo periodo alla logica di potenza unita all’interesse energetico.
© FCSF – Popoli, 1 aprile 2011