È in atto una sotterranea lotta fra i due gruppi di potere criminale che continuano imperterriti a controllare il territorio per lo spaccio della droga e per l’investimento lucroso del denaro sporco. Se una famiglia ha qualche legame di parentela con la parte opposta a chi gestisce la «piazza» è costretta a trovare alloggio altrove, con immaginabili difficoltà, specie se il capo famiglia è in carcere o è stato ucciso. Tutto è chiaro e risaputo per chi è dentro una simile esperienza. Per chi è fuori suona strano che non ci sia un intervento delle forze dell’ordine. È una scelta strategica non facilmente comprensibile quella che mantiene Scampia come centro indiscusso dello spaccio, forse per salvaguardare altri quartieri della città a vocazione turistica e per la sicurezza (almeno apparente) di cittadini che invocano protezione e tranquillità. A una simile riflessione appena abbozzata, si deve ancora aggiungere la questione dell’efficienza e dell’efficacia del sistema di prevenzione e repressione, che spetterebbero ai carabinieri e alla polizia. Si apre un capitolo complesso e sul quale si deve ritornare, soprattutto per chiarire le responsabilità, e in certi casi le complicità, di chi si presta all’illegalità. Un colloquio con un detenuto è stato per me l’occasione per far luce su una certa connivenza fra singoli uomini di polizia e malaffare. Questo detenuto ha potuto avere una sentenza più «leggera» perché, nel momento in cui è stato arrestato per spaccio, il poliziotto ha redatto un verbale che attestava il possesso solo della droga e non del denaro sporco. Quest’ultimo è finito con disinvoltura nelle tasche dello stesso poliziotto. Un caso non significa la corruzione dell’intero corpo di polizia, ma dice la necessità di ricostruire un corretto rapporto tra cittadini e istituzioni. Simili situazioni sono anche una splendida occasione perché la comunità ecclesiale insista nell’educazione a un uso corretto del denaro, alla sobrietà e al gusto di farsi poveri con i poveri.
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