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Maurizio Ambrosini
Università di Milano, direttore della rivista Mondi migranti
Un click sull’ipocrisia
Si è consumato tra gennaio e febbraio il rito dei click day. È ora il tempo dell’attesa per oltre 400mila migranti: circa uno su quattro riuscirà a ottenere il sospirato permesso di soggiorno. Proviamo a riflettere su questa procedura, che rivela ancora una volta la difficoltà a governare in modo sensato il fenomeno dell’immigrazione dopo aver speso tante parole sulla chiusura delle frontiere.
Anzitutto, qualcuno ha obiettato che far entrare nuovi migranti in un Paese ancora depresso dalla recessione è un non-senso economico e sociale. Ma se consideriamo la vicenda più da vicino, scopriamo che il senso c’è, è soltanto diverso da quello annunciato. Formalmente i datori di lavoro dovrebbero chiedere l’autorizzazione all’ingresso per lavoratori ancora residenti all’estero. In realtà, ben raramente un datore di lavoro, e tantomeno una famiglia, sono disposti ad assumere e magari ad accogliere in casa una persona mai vista né conosciuta. La norma serve pertanto a mettere in regola lavoratori già entrati in Italia e occupati in nero, prevalentemente nell’ambito familiare. Lavoratori che, nel caso la procedura vada in porto, dovranno uscire di nascosto dall’Italia, rifare i documenti, ottenere il visto presso il consolato italiano nel proprio Paese. A quel punto potranno tornare a rioccupare il loro posto, finalmente in regola. Dopo aver affrontato costi e disagi, tanto più pesanti quanto più vengono da lontano, con inevitabili ripercussioni per chi li accoglie e ha bisogno del loro lavoro.
In secondo luogo, dati i modesti requisiti richiesti (il semplice permesso di soggiorno e un reddito familiare pari al doppio del salario del potenziale assunto), il decreto-flussi serve come canale di sponsorizzazione dell’ingresso di parenti e amici dei migranti regolari. Anche in questo caso al prezzo di finzioni e falsità, come l’assunzione in qualità di collaboratori familiari. Senza contare i costi della gestione delle domande per una burocrazia dell’immigrazione già ai limiti del collasso.
Alle 8 del mattino dei giorni convenuti (31 gennaio, 2 e 3 febbraio), dai computer di tutta Italia è dunque partito il fruscio della speranza. Una maggiore dimestichezza con l’informatica, una strumentazione migliore, un nome più breve, linee meno intasate, potranno determinare la differenza tra i sanati e quanti continueranno a rimanere sommersi nella palude del soggiorno irregolare e del lavoro nero.
Ancora una volta abbiamo pagato un prezzo alla retorica della chiusura e della fermezza. Si è attuata nell’ombra, in modo ipocrita, contorto e casuale, una politica dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro che si potrebbe gestire più razionalmente, alla luce del sole, con minori costi e disagi per tutti.
© FCSF – Popoli, 1 aprile 2011