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Cinema e Popoli
Luca Barnabé
Critico cinematografico
Una separazione
Dal buio alcuni lampi intermittenti di luce. Poi intravediamo in primo piano alcuni documenti d’identità che qualcuno sta fotocopiando. Nero, poi di nuovo ancora luce con delle foto in miniatura. Il nostro sguardo coincide esattamente con il piatto su cui viene fatta la fotocopia.
Poco dopo i personaggi intravisti nelle foto si rivolgono a noi, ora inquadrati a mezzo busto e con lo sguardo in macchina, le parole inarrestabili. I loro discorsi spesso si sovrappongono. Sono due coniugi che parlano, bisticciano e guardano un giudice, di cui però udiamo solo la voce. Gli occhi di quest’ultimo coincidono con i nostri.
Ashgar Farhadi, dopo l’interessante About Elly, torna a raccontare una storia di borghesi iraniani di oggi. Gli spostamenti continui di sguardo e del punto di osservazione danno un’impressione immediata di persone braccate. I documenti paiono foto segnaletiche, gli imputati parlano con il giudice/«noi». Ci è difficile «comprendere» la ragione. Scopriamo che si tratta della separazione del titolo. I due sono marito e moglie, vorrebbero divorziare, perché lei ha ottenuto un visto per espatriare e vuole la figlioletta con sé (dopo le controverse elezioni del 2009). Il marito vuole restare in Iran ad accudire il padre malato di Alzheimer. Non è concepibile volere andare via dall’Iran senza il marito e la figlia. Il giudice non consente il divorzio, perché non ci sono ragioni sufficienti a motivarlo. Dice testualmente: «Se almeno uno di voi due fosse tossicodipendente, l’altro potrebbe chiedere il divorzio…».
Nella prima folgorante sequenza di Una separazione è già racchiuso il senso del film. Nel regime iraniano di oggi perfino una «normale», già sofferta separazione tra persone che si vogliono ancora bene, diventa una questione politico-religiosa su cui la dittatura pone il proprio veto. Nessuna libertà di scelta. La verità non interessa. La figlioletta deve restare in patria.
Dai titoli di testa in poi si succederanno alcune tragedie accidentali e varie sfortune. Il regista le mette a fuoco omettendo per ellissi alcuni dettagli che emergeranno con lo sviluppo della storia. Riesce a spostare il proprio sguardo fino a farlo coincidere ogni volta con quello del personaggio inquadrato, per poi ribaltare la prospettiva alla sequenza successiva.
La verità di ognuno sembra schiacciata ancor più che nella nostra realtà quotidiana. L’ombra della mancanza di libertà si estende sugli sguardi dei personaggi, del giudice e per estensione sul nostro, fino a lasciarci senza parole. In una sequenza comprendiamo le ragioni di un personaggio, nella successiva condividiamo lo sguardo del personaggio opposto, in una sorta di Rashomon realistico, complesso e senza tregua, in cui ognuno dice un frammento di verità. Proprio quello che nessun regime di qualsiasi tempo concepisce mai: accostarsi alle ragioni dell’altro.
Con questo prezioso film Farhadi e tutto il cast hanno trionfato allo scorso Festival di Berlino. Durante e dopo la visione di Una separazione si ha l’impressione di essere prossimi con gli occhi e il cuore al dolore di persone - più che di personaggi - mai conosciute prima. Persone che si disprezzano fra loro e che a noi paiono ugualmente sfortunate. Lo sguardo innocente e già disilluso dalla vita delle bambine che (ci) osservano in tribunale o in un angolo buio di una casa-prigione è destabilizzante e indelebile.
© FCSF – Popoli, 1 dicembre 2011