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La sete di Ismaele
Paolo Dall'Oglio
Gesuita del monastero di Deir Mar Musa (Siria)
Undici settembre duemilaundici,
dieci anni!
Amarcord: il papa a Gerusalemme, e poi la seconda, più violenta, disperata, suicida intifada palestinese… Quando vennero giù le Torri della città simbolo dell’iperpotenza globale, ero in un taxi collettivo al confine libanese. Provai un’impressione contraddittoria e apocalittica: una nuova stazione dell’umana via crucis, «in diretta».
Un sentimento di vertigine: il potentissimo era colpito al cuore! La guerra arabo-israeliana diventava islamo-occidentale. L’alleato assoluto d’Israele era trascinato in guerra da un pugno di jihadisti. Il monopolio americano della potenza era reso fragile da quello che sarà identificato come il nemico islamico internazionale. Vedevo, impotente, due treni avviati l’uno contro l’altro sullo stesso binario.
Con quelle torri, caddero le speranze di dialogo costruite sulla coscienza della complessità delle dinamiche planetarie e delle esigenze e tensioni relative alle diverse realtà identitarie umane. Ero certo tra gli sconfitti! Giovanni Paolo II pure. Per l’amministrazione Bush, una manna simbolica: l’appuntamento all’Armagheddon, per lo scontro tra «cristo occidentale» e «anti-cristo islamico». D’ora in poi i partigiani del dialogo avrebbero raccolto solo sorrisi di commiserazione.
Oggi le cose cambiano e la complessità si vendica. Si torna all’analisi di fenomeni non riducibili allo scontro di civiltà. L’undici settembre significa pure lo scacco del cinismo diplomatico nella gestione degli interessi particolari sulla pelle degli oppressi, orfani dell’utopia comunista. In questo senso, l’era Obama è una novità, seppur relativa; e la primavera araba non è riducibile - come pensano in diversi a Damasco - all’ennesimo attacco imperialista contro i popoli indipendenti, interpretazione condita con la convinzione (non sempre infondata) che l’estremismo islamico sia un grimaldello occidentale, usato in coppia col gendarme israeliano, per mantenere il monopolio della forza.
La complessità riprende i suoi diritti: la primavera araba è democratica ma non anti-islamica (o il contrario: islamica ma non anti-democratica); la Turchia (membro Nato) s’oppone apertamente a Israele (e 400mila israeliani scendono in piazza contro Netanyahu); la guerra afghana è persa (anche per gli alpini) e probabilmente si finirà con l’assistere alla nascita d’uno Stato pashtun tra Kabul e Peshawar (o almeno a un’entità nazionale a cavallo tra Afghanistan e Pakistan, un po’ come la nazione curda tra Turchia, Iraq, Iran e Siria); la tragedia irachena proseguirà anche dopo la ritirata occidentale (però non è detto… forse stiamo uscendo anche dal «sotto-scontro» tra sunniti e sciiti); l’Onu riconosce infine la patria palestinese; ecc.
Una scelta non cinica e non militarista, da parte della comunità internazionale, riguardo alla penosa crisi siriana, potrà inaugurare una gestione nonviolenta dei conflitti, ed esprimere una prospettiva meno asfissiante per i giovani. Sì, quei giovani globali, gli «indignati», che saltano oggi sul palco dell’attualità come attori tanto inattesi quanto inaggirabili.
La giornata di preghiera interreligiosa ad Assisi con papa Benedetto è un altro segno di una controtendenza, che chiamiamo a ragione evangelica; i nostri amici musulmani la chiamano altrimenti; c’è chi parla solo di comune senso d’umanità.
C’è nell’aria, benché ancora ammorbata di violenza, una coscienza d’inevitabilità del superamento tanto del modello imperiale come di quello nazionale. La democrazia che viene sarà profondamente locale e responsabilmente globale, in una logica di rete e non più secondo la meccanica dell’universalizzazione dello Stato centralizzato.
Senza sponda spirituale s’andrà di male in peggio. L’amicizia islamo-cristiana è già oltre l’insopportabilità del presente. Chi non intravvede il Regno mai lo vedrà!

Paolo Dall'Oglio

© FCSF – Popoli, 1 ottobre 2011