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La sete di Ismaele
Paolo Dall'Oglio
Gesuita del monastero di Deir Mar Musa (Siria)
Velate trasparenze
Le mogli di alcuni miei amici musulmani di Verona portano il velo (o foulard) islamico, ma non il niqab integrale. Tuttavia rivendicano l’uguale legittimità dell’interpretazione delle fonti che richiede di coprire il volto. Dal loro punto di vista è una questione di libertà religiosa, la quale dovrebbe essere garantita a tutti e a tutte e non giudicata da un punto di vista secolarizzato che si pretenderebbe più «civile».
I musulmani, anche in Italia, temono che si cominci con il vietare oggi il niqab, domani il foulard a scuola e sul lavoro, poi la preghiera in luogo pubblico... Riconosco a una società democratica il dovere di fare scelte a volte dolorose per una parte della popolazione, come per esempio imporre trasfusioni di sangue ai figli minorenni dei Testimoni di Geova. Una società laica non ha il diritto d’inventarsi principi assoluti che non ha, però ha il dovere di fare scelte secondo ciò che sta a cuore ai cittadini, salvaguardando per quanto è possibile il pluralismo e il rispetto delle minoranze. Ora, a mio avviso, e visto che la grande maggioranza delle musulmane ritiene che non sia un obbligo religioso coprirsi il viso, penso che si possa scegliere di vietare il niqab (così come il casco o la sciarpa) quando è d’intralcio all’ordine pubblico o perché ritenuto contrario alla dignità della persona.
Secondo il mio sentire, e a differenza del velo, il niqab ferisce la dignità umana personale e collettiva: è infatti un indumento che dice sfiducia nella società, considerata incapace di rispettare la sacralità della donna. Questo dovrebbe però far riflettere sull’indecenza pornografica più che lecita in Occidente. Questa pure offende il mio senso del pudore e della dignità umana personale e collettiva. Mi chiedo se accanto al divieto del niqab non ci dovrebbe anche essere un uguale divieto di abitudini particolarmente indecenti dal punto di vista del senso comune del pudore, oltre che dal punto di vista religioso musulmano.
Tutto è relativo in queste cose, se è vero che, ad esempio, in India è più che decente mostrare il ventre. Tuttavia qualche regoletta si potrebbe anche proporre. Questo aiuterebbe i musulmani a capire che il divieto del niqab non è contro di loro come comunità religiosa. Si potrebbe vietare l’andare con il busto nudo in pubblico e chiedere di coprirsi dall’ombelico al ginocchio, sia per le donne che per gli uomini. Per spiagge e discoteche si potrebbe decidere diversamente, secondo il senso comune. Alla fine però la società potrebbe decidere che così è troppo complicato e che è più semplice tenersi qualche centinaio di niqab.
In generale, questa questione fa trasparire una grande difficoltà, in Italia, ad accettare la differenza musulmana, in modo analogo al rifiuto tradizionale dell’altro ebraico, o protestante, o «zingaro». Inoltre l’ovvietà del diritto sta sempre dalla parte del nostro provincialismo mammone. Un ragazzo musulmano mi chiedeva: «Se in nome dell’uguaglianza tra i generi si mettessero fuori legge le organizzazioni nelle quali la donna è esclusa da responsabilità direttive e sacrali, e se ne incamerassero i beni, la Chiesa cos’avrebbe da obiettare?».
Forse nella rivendicazione della donna musulmana d’andare pubblicamente velata traspare la volontà islamica d’affermare verità che il mondo non conosce. Tra il petto nudo della Repubblica e il velo della Religiosa si disegna un lungo itinerario di maturazioni. Alcune cose importanti restano velate perché possano trasparire infine senza banalizzazione consumistica.
© FCSF – Popoli, 1 ottobre 2010