Home page
Webmagazine internazionale dei gesuiti
Cerca negli archivi
La rivista
 
 
 
Pubblicità
Iniziative
Siti amici
Idee
Cerca in Idee
 
Cinema e Popoli
Luca Barnabé
Critico cinematografico
Vénus noire (Venere nera)

La vera storia di una schiava nera d’Europa, beffardamente ribattezzata «Venere», come la dea dell’amore, per le forme femminili ritenute eccessive e fuori misura. Nei primi anni dell’Ottocento Saartjie Baartman, giovane donna di etnia khoikhoi (boscimani), fu strappata all’Africa del Sud, portata nei freak show di Londra e Parigi, esibita in catene come una bestia feroce, poi resa oggetto di piacere e vizio dei «nobili» libertini, costretta a prostituirsi per le strade parigine e infine, dopo la morte per sifilide, sezionata dai «medici» razzisti di allora che volevano dimostrare la somiglianza della razza nera con le scimmie. Il corpo di Saartjie non ha avuto pace nemmeno dopo la morte.
Nel 1994 il presidente sudafricano Nelson Mandela ha chiesto e ottenuto che i resti della donna fossero riportati dalla Francia nel Paese d’origine e sepolti con una cerimonia commemorativa.
Il regista Abdellatif Kechiche, autore degli straordinari La graine et le mulet (da noi sbrigativamente reintitolato Cous Cous) e La schivata, inquadra gli ultimi anni di vita della donna, a partire dal baraccone di strillate difformità di Londra, in cui Saartjie era il pasto principale degli sguardi rozzi e volgari del mondo.
Vénus noire è stato ignorato colpevolmente dai premi della Mostra veneziana che ha incoronato una pellicola furba, futile e sciatta come Somewhere. È invece uno dei film più destabilizzanti, choccanti, potenti e necessari degli ultimi anni.
L’accusa più ingiusta mossa all’opera di Kechiche è stata l’etichetta di «film compiaciuto». Vénus noire non ha niente di compiaciuto, anche perché la compiacenza cinematografica implica uno sguardo che asseconda i nostri desideri o i desideri di chi mette in scena il film. Qui di esplicito, esibito, osceno c’è solo la realtà storica ricostruita fedelmente dal regista. Lo sguardo è invece gelido, raggelato, distante. Costringe così indirettamente chi guarda il film a sentirsi colpevole voyeur - proprio perché voyeur a sua volta - della violenza perpetrata anche solo con gli occhi sul corpo di Saartjie. Il pubblico dei freak show vuole toccare (non solo) con gli occhi. Il pubblico occidentale del film, la coscienza intorpidita, vorrebbe non specchiarsi in quel pubblico, ma spesso non fa nulla perché la storia non si ripeta.
Le impronte digitali prese a un bimbo solo perché di razza diversa sono meglio delle catene finte che cingono Saartjie? La donna nera che oggi viene esibita in tv, il seno in ultra vista in prima serata, i giochi di parole e le barzellette sul colore della pelle si rivolgono a un pubblico molto più maturo di quello dei freak show dell’Ottocento?
Strepitosa l’attrice esordiente Yahima Torrès. Dà anima e corpo alla schiava nera d’Europa. Il corpo fuori misura come la sua innocenza, Saartjie resta indelebile nella nostra memoria, anche grazie a Torrès che ha poche battute, poche parole, ma recita con lo sguardo, le lacrime, il capo reclinato verso il basso e la postura di un corpo-anima, sempre imprigionato in una gabbia.

© FCSF – Popoli, 1 novembre 2010