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La sete di Ismaele
Paolo Dall'Oglio
Gesuita del monastero di Deir Mar Musa (Siria)
«Vive la République»
La piccola sala della «Maison Commune» del paesino delle Cévennes è stipata. La fascia tricolore decora il busto di Marianne coprendone con islamico pudore il seno rivoluzionario. Il sindaco ha gli occhi umidi. È ormai raro celebrare un matrimonio quassù e questa coppia è venuta ad abitare in una baita isolata, con l’idea di dar vita a un progetto agro-turistico con un netto risvolto comunitario e solidale.
K., di gran fascino e dal riso contagioso, è dottoranda in storia del pensiero islamico a Parigi. D., acuto e sensibile, ha un cognome italiano e un papà psichiatra. Si sono conosciuti nel monastero del deserto siriaco. Lei volontaria per un’organizzazione cattolica, responsabile della biblioteca e in segreteria: musulmana di famiglia marocchina, pregava regolarmente riponendo l’abito nero nell’armadio in chiesa tra i camici bianchi dei monaci. Lui è arrivato, piuttosto è naufragato, sulla riva della comunità, a metà tra un pellegrino e un barbone. Ritrova in una monaca siriana la mamma persa da bambino. Riparte dopo sei mesi come rinato e con sogni più realistici in capo.
Grazie a Dio non ha piovuto che poche gocce e il cuscus mette tutti di buon umore nonostante la tavola senza alcolici. D., che non era battezzato, ha scoperto la fede in Dio e ha scelto l’islam. Con K. hanno preso contatto con la piccola comunità del capoluogo ed un drappello di fedeli della moschea è salito a far festa.
Per preparare l’evento un gruppo di amici del monastero sono qui da diversi giorni. C’è tra gli altri L., della Repubblica Ceca, ottimo muratore ed elettricista: era passato a Deir Mar Musa per un pomeriggio e vi è rimasto sei mesi per approdare poi in seminario a Praga. C’è una scoppiettante amica giapponese, solidale ape operaia. C’è Ly., franco-algerina, che celebra dieci anni di battesimo e ha preparato il cuscus dell’amicizia e della tolleranza con la mamma e le sorelle di K. Questa saggia mamma marocchina, musulmana semplice e devota, dopo la morte del marito ha lavorato sodo per tirare su i cinque figli e ora sono tutti inseriti bene.
Assisi su un candido lenzuolo sull’erba, sotto un immenso noce, gli sposi si offrono l’un l’altro un bicchiere di latte (la bevanda vitale delle origini e promessa paradisiaca). Si legge il Corano, il versetto della luce in arabo e in francese, e voilà, sono marito e moglie. Ma non è finita. Partiamo a piedi sulla montagna e raggiungiamo un’antica cappella romanica abbandonata. Costruiamo un altare di pietra e celebriamo un’Eucarestia quassù. Chiedo alla coppia musulmana perché ha voluto la Messa: «per amore» dice lei, «per gratitudine» aggiunge lui.
Mi tocca ricordare ai presenti che la comunione è riservata ai battezzati che discernono il corpo e il sangue di Cristo. Discriminazione che individua una vocazione evangelica al servizio della comunione e dell’ospitalità. Essa frappone tra le nostre comunità come una siepe o un velo (non più muri ormai) per definire appartenenze funzionali a ruoli reciproci e testimonianze compatibili nel vivere comune all’insegna della «fraternità». Il mio amico Regis Debray definisce la fraternité come la dimensione «sacra» della vita repubblicana. Un musulmano locale lanciato in politica afferma che la fraternità laica è vuota senza l’apporto mistico e morale delle comunità religiose cultuali.
Abbiamo vissuto una giornata di pace escatologica, d’Europa futura, di mediterraneo avvenire. Il papà dello sposo mi confida: «Sono fiero di questa Repubblica che impara a far spazio alle differenze e festeggia l’armonia». Poi ci abbracciamo e aggiunge: «Saluta affettuosamente la monaca siriana che mi ha restituito questo figlio!».

© FCSF – Popoli, 4 novembre 2010