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A bordo di Mare Nostrum
10/06/2014

Mentre il 2014 segna il record di migranti che cercano di entrare in Europa attraverso il Mediterraneo, siamo saliti su una nave dell’operazione organizzata dal governo italiano, per incontrare storie e volti delle persone recuperate dai militari, spesso in condizioni disperate. Pubblichiamo una parte del servizio che esce sul nuovo numero di Popoli.

 

«Non si fermano, stanno scappando, temono che siamo libici, dobbiamo superarli!»: dalla plancia della Nave Sirio (una corazza di acciaio lunga 88 metri, uno dei pattugliatori in forza alla Marina Italiana), la voce del comandante Marco Bilardi ha lo stesso ritmo dei suoi passi rapidi. È il primo pomeriggio di una grigia giornata di aprile; nei tre giorni precedenti l’equipaggio ha soccorso più di 700 naufraghi nel Mediterraneo (poi accompagnati nei porti di Pozzallo e Porto Empedocle, rispettivamente in provincia di Ragusa e Agrigento), e adesso ci si prepara a un nuovo intervento.

L’INSEGUIMENTO
L’imbarcazione
da soccorrere è ben visibile, ma non sembra intenzionata a fermarsi. Ci troviamo a meno di cento miglia dalle coste libiche, nell’area che Nave Sirio sta pattugliando da qualche giorno. E quest’oggi lo fa in direzione sud-est. «È sempre meglio venire da nord, perché altrimenti pensano che proveniamo dalla Libia e vogliamo riportarceli», spiega il comandante.

Parte così l’inseguimento: loro a sinistra, noi sulla loro destra, viaggiamo a circa 20 nodi, bisogna stare attenti alla velocità, e non perder di vista la loro, altrimenti basta un’onda anomala generata dal nostro andamento per farli ribaltare.

UN PACCO DI SPAGHETTI
Dopo meno di dieci minuti
li abbiamo raggiunti e superati. Si procede con la preparazione dell’idrobarca di sinistra, sarà la prima a raggiungere l’imbarcazione da soccorrere. Il comandante fa portare a bordo del gommone a motore un pacco di spaghetti e una bandiera italiana: potrebbero essere utili da mostrare nel momento di avvicinamento al barcone, per dimostrare che siamo italiani.

Quattro marinai
vanno in avanscoperta sull’idrobarca, in costante contatto radio con la plancia. Appena arrivati vicino al barcone forniscono un primo resoconto: «Si tratta più o meno di 200 persone, ci sono bambini e donne, alcune incinte. C’è una falla nell’imbarcazione, stanno già prendendo acqua, ma non sono fermi, navigano “a lento moto”». Non c’è tempo da perdere. «Devono spegnere i motori, o almeno fermare l’abbrivio, altrimenti non possiamo soccorrere», risponde dalla plancia l’ufficiale in seconda, Andrea Scalia.

Segue un silenzio
difficile da quantificare in minuti: in realtà sono pochi, ma dalla plancia sembrano infiniti. Nuovo messaggio dal gommone: «Adesso sembrano fermi, possiamo procedere con le manovre. C’è un bambino che ha bisogno di cure perché sta male». «Diamo priorità assoluta», replica Bilardi.

I SOCCORSI
Intanto
, nella parte posteriore della nave, l’equipaggio è pronto a ricevere i naufraghi. Una volta saliti a bordo attraverso una scaletta mobile, dopo i controlli di sicurezza, vengono identificati, censiti, e infine divisi: donne e bambini fatti accomodare in un luogo coperto, gli uomini seduti sul ponte. È un’operazione che dura svariate ore: l’idrobarca fa viaggi di 15 persone alla volta, e sulla Sirio si forma una lunga fila.

Non tutti i naufraghi
sono pronti a collaborare. Le donne eritree, in particolare, non vogliono farsi fotografare, né lasciare i propri dati. Scuotono la testa e rimangono ferme nella propria posizione. «Voglio aspettare che arrivi mio marito - dice una delle poche che parla in inglese per temporeggiare -: lui è ancora sul barcone, ha con sé i nostri documenti». Le altre la imitano. I marinai cercano di ricompattare i nuclei familiari, e a poco a poco le donne diventano più collaborative. Sono spaventate e si sentono smarrite. Alcune, in gravidanza, vengono fatte sdraiare e tenute sotto osservazione dal team sanitario della nave. Molti bambini hanno il viso scottato dai raggi solari, tanti uomini sono disidratati e faticano a reggersi in piedi.

Sono partiti
dalle coste libiche da due giorni, la loro barca aveva iniziato a prendere acqua, molti naufraghi sono bagnati. La maggior parte delle famiglie sono siriane, mentre il 90% dei ragazzi che viaggiano da soli vengono dall’Africa, soprattutto da Mali, Sudan, Somalia, Eritrea, Nigeria.

L’AMORE NEL DESERTO
Dopo circa tre ore
, quando le operazioni di imbarco sono terminate, Natu può finalmente riabbracciare la sua Wehazit. Lui 26 anni, lei 14, entrambi vengono da Asmara. Si sono conosciuti durante il viaggio, hanno attraversato tre deserti, dall’Eritrea al Sudan, dal Sudan all’Egitto e dall’Egitto alla Libia: «Quando l’ho vista ho subito capito che era la donna della mia vita, dovevo occuparmi di lei, dovevo proteggerla», racconta Natu. Il viaggio sul barcone è costato 1.400 dollari. Lui ha un fratello che, dopo aver vissuto in Italia e in Belgio adesso si è sistemato in Francia, ma Natu è diretto in Inghilterra, perché parla bene inglese: «Voglio cambiare la mia vita, lavorare duramente per crearmi una famiglia con Wehazit, e voglio farlo in un Paese democratico».

LA NOTTE
Il ponte
è stracolmo di gente. Alcuni sono sdraiati, altri seduti vicini, per guadagnare spazio. Ognuno ha una coperta termica, pensata per proteggere sia dal freddo sia dal caldo eccessivi, e anche per ripararsi dal vento. Un ragazzo tiene strette le ginocchia al petto e trema vistosamente. Ha i vestiti bagnati, ma non ha indumenti di ricambio perché in Libia gli hanno rubato la borsa con le sue poche cose. Si chiama Youssef, viene dalla Nigeria, e scappa da un Paese in preda a una violenza inarrestabile. «Ho visto i terroristi uccidere alcuni miei cari come fossero bestie - racconta in un mix tra inglese e francese -; sto andando in Italia dove vive già mio fratello. Non so bene in quale città, ma ho il suo numero di telefono, lo chiamerò appena arrivo a terra. Tra qualche mese tornerò in Nigeria a prendere mia madre e mia sorella, devo portarle in salvo, ma non possono mettersi in viaggio da sole, la Libia è troppo pericolosa».

La nave
intanto viaggia in direzione dell’isola di Lampedusa, il comandante ha ricevuto la comunicazione che i 200 naufraghi verranno trasbordati su alcune motovedette e da lì fatti sbarcare. All’imbrunire la distribuzione dei pasti è stata completata, a tutti i migranti vengono dati cartoni per potersi sdraiare e riposare. In mare aperto la notte è fredda, soprattutto allo scoperto.

LA TEMPESTA
Quando avvistiamo
la costa di Lampedusa la mezzanotte è passata da un pezzo, ma all’orizzonte si intravedono lampi che non fanno presagire nulla di buono. Si avvicinano le due motovedette, i naufraghi vengono sistemati in fila per scendere dalla nave. Nel momento stesso in cui sta per iniziare il primo trasbordo, però, si scatena un violento temporale. La pioggia è battente, cade anche qualche chicco di grandine. Il comandante ferma tutto: «Non ci sono le condizioni di sicurezza per trasbordare, dobbiamo sospendere le operazioni».
Cambiano i piani: sarà la Nave Sirio a portare i naufraghi a terra, direzione Porto Empedocle, orario di arrivo stimato attorno alle 14. Le motovedette si allontanano senza alcun naufrago a bordo e Sirio riprende il suo cammino cambiando rotta. La lunga notte dei marinai è appena iniziata.

TAPPETO UMANO
Il temporale
va avanti per parecchie ore, sono più di 150 gli uomini all’aperto, in balia della pioggia. I marinai decidono di farli spostare sul ponte coperto: uno spazio molto più esiguo, ma almeno al riparo dalle intemperie. La collaborazione dei naufraghi è totale, tutti vengono rapidamente fatti scendere al piano sottostante.
Alle prime luci dell’alba, la scena è quasi spettrale: una marea di persone riversate le une sulle altre, una massa amorfa in cui non si riescono a distinguere forme né sembianze. Qualcuno lo definisce un «tappeto umano», e mai metafora è stata più calzante.

Quando smette
di piovere e un timido sole si fa spazio tra le nuvole, i naufraghi vengono fatti risalire sul ponte di volo, e qualcuno ne approfitta per sgranchirsi le gambe. Tra i più attivi c’è Khaled. Parla inglese fluentemente, si mette a disposizione dei marinai e il suo si rivelerà un prezioso aiuto.

DA DUBAI ALLE BOMBE
Khaled è siriano,
ha meno di quarant’anni, è single e ha vissuto otto anni a Dubai. Lavorava nell’edilizia, aveva un tenore di vita di tutto rispetto. Quando è tornato nel suo Paese, in Siria, ha trovato una terra trasformata, lontana anni luce da quella che aveva lasciato. «Purtroppo quando un presidente governa per 30 anni consecutivi, può fare tutto quello che vuole. E così succede che una mattina si sveglia e decide di ammazzare tutti i suoi concittadini, e nessuno muove un dito per fermarlo». Khaled ha provato a vivere per un po’ nella sua città, Damasco, ma non ce l’ha fatta: «Dovevi convivere con le bombe, ti consideravi sempre un bersaglio, era una situazione insostenibile». Da qui la decisione di andare in Libia: «Un Paese senza governo, nel quale puoi entrare e fare tutto ciò che vuoi, basta che corrompi qualcuno». Ha lavorato un anno in Libia, ma neppure quel genere di anarchia poteva dargli tranquillità e il pericolo era altissimo. Così Khaled ha deciso di partire di nuovo, sfidando il mare su un barcone fatiscente. È diretto in Germania, dove c’è un cugino che lo attende.

FOTO RICORDO
Quando all’orizzonte
appare la costa sicula, il sole domina incontrastato. Alla vista della terra lo sguardo dei migranti si accende di speranza: c’è chi lancia un grido di gioia, chi alza le braccia al cielo in segno di vittoria, chi si mette in posa per una foto ricordo. I genitori prendono in braccio i propri figli, indicando la tanto agognata terraferma. È la fine di un viaggio in mare durato oltre tre giorni e che li ha visti scampare alle insidie del Mediterraneo. Alcuni si fanno dare grossi sacchi neri e iniziano a raccogliere piatti, bicchieri e coperte: vogliono lasciare la nave in ordine come l’hanno trovata.

«Ma dove andiamo ora?»
, «Quanto è lontana la stazione ferroviaria?», «Quanto dista la Sicilia da Milano?», «Dove si compra il biglietto per la Norvegia?», «E per la Germania?». Le domande si susseguono, ma i marinai non sanno rispondere. Distribuiscono di nuovo i salvagente e aiutano i loro «compagni di viaggio» a salire sulle motovedette della Guardia costiera. Dal ponte ormai vuoto li vedono allontanarsi e dirigersi verso Porto Empedocle. Il mare lascia il posto alla terraferma, inizia una nuova tappa del viaggio. 

Romina Vinci
 


© FCSF – Popoli