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Caro Camillo, e tu non partiresti?
4 ottobre 2013
La maggior parte dei migranti morti nella notte tra il 2 e il 3 ottobre al largo di Lampedusa provenivano dall’Eritrea e dalla Somalia. A differenza di quanto scrive Camillo Langone su Il Foglio, non è vero che questi ragazzi (si tratta di persone tra i 17 e i 25 anni, ma anche di molti bambini) «non sarebbero mai partiti temendo un’accoglienza di dobermann e fucilate, anziché di sorrisi e mense, volontari e preti». Sarebbero partiti ugualmente: proprio perché nel Paese di provenienza convivono quotidianamente con le fucilate, oltre che con fame, sete, violenze di ogni tipo. Senza contare che, nel tragitto dal loro Paese a Lampedusa, hanno rischiato molto di più dei morsi di un dobermann.

La Somalia è un Paese che vive da 22 anni una guerra civile senza quartiere. Caduto il dittatore Siad Barre (un ex brigadiere dei carabinieri la cui dittatura venne per anni sostenuta da Roma), l’ex colonia italiana è stata preda delle lotte feroci dei cosiddetti «Signori della Guerra». I quali altro non erano che ex ministri o ex generali che Siad Barre aveva messo uno contro l’altro per poter meglio governare. Negli anni lo scontro tra i clan è stato sostituito da una lotta contro i fondamentalisti islamici di al-Shabaab (filiazione somala del network di al-Qaeda). Oggi sebbene a Mogadiscio si sia insediato un governo sostenuto dalla comunità internazionale, la Somalia centro meridionale è controllata dalle milizie fondamentaliste. La loro forza si è manifestata in modo palese nel recente attentato al centro commerciale di Nairobi. Un modo per punire il Kenya del suo sostegno al governo centrale di Mogadiscio. Come, d’altra parte, avevano già fatto in Uganda quando nel 2010 uccisero 75 persone per punire la partecipazione di Kampala alla missione dell’Unione africana in Somalia. Questa situazione sta colpendo duramente la popolazione; la mortalità infantile è elevatissima (101 bambini su 1.000), solo un ragazzo su tre sa leggere e scrivere, il 49% dei bambini tra i 5 e i 15 anni lavora, l’aspettativa di vita non supera i 50 anni. È chiaro che chiunque viva in queste condizioni, appena può lascia il proprio Paese.

Lo stesso discorso può essere fatto per l’Eritrea.
Diventato indipendente nel 1993, il Paese sembrava avviato a diventare una democrazia guidata da una classe politica che si era formata nella trentennale guerra contro l’Etiopia. Il presidente Isayas Afeworki prende però gradualmente il potere affermandosi come un dittatore spietato. Nel 1997, alla vigilia dell’approvazione della Costituzione democratica, attacca l’Etiopia. Ne segue la dichiarazione dello stato di emergenza e la sospensione di tutti i diritti costituzionali. La guerra durerà fino al 2000 e provocherà decine di migliaia di morti da entrambe le parti. La firma della pace però non porta la democrazia. Anzi, i ministri e i generali che chiedono si avvi un processo democratico vengono arrestati nel 2001 e di loro non si saprà più nulla.

Progressivamente si restringono tutte le libertà civili. Vengono chiusi i giornali indipendenti, arrestati molti religiosi cattolici e ortodossi, perseguitate le minoranze religiose, repressa ogni forma di dissenso. I ragazzi sono arruolati a 17 anni per un periodo non definito. Nel frattempo scoppiano ulteriori tensioni con il Sudan e con Gibuti. Isayas mantiene un rapporto solido con l’Italia. Tuttora ha solidi legami con esponenti politici tanto della destra (ricordiamo che Silvio Berlusconi ha ottimi rapporti con il dittatore) quando della sinistra (alcuni esponenti del Pd mantengono relazioni con l’Eritrea in forza dell’amicizia che per anni legò il Pci ai ribelli eritrei che lottavano contro l’Etiopia). L’economia, legata in gran parte al settore agricolo, garantisce a malapena i livelli minimi di sussistenza. Più del 50% degli eritrei vive sotto il livello di povertà. Molti ragazzi, per fuggire dalla miseria e da un servizio militare a tempo indeterminato, fuggono.
È la disperazione che li porta alla fuga. E non saranno né i doberman né i fucili a fermarli.
Enrico Casale

© FCSF – Popoli
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