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Centrafrica, le violenze continuano
28 agosto 2013
Non c’è pace nella Repubblica centrafricana. Dal 24 marzo quando i ribelli della coalizione Seleka («alleanza» in lingua sango) hanno rovesciato con un golpe il presidente François Bozizé, il Paese è sprofondato in una sorta di anarchia nella quale vige la legge del più forte. A farne le spese è la popolazione più povera e i cristiani (clero e laici) vittime dei miliziani che sostengono il nuovo presidente Michel Djotodia. Miliziani che sono, in gran parte, stranieri (provenienti dal Ciad e dal Sudan) e musulmani. «Siamo estremamente preoccupati - hanno affermato gli osservatori indipendenti dell’Onu in un rapporto sulla Repubblica centrafricana pubblicato all’inizio di agosto - per le denunce di omicidi, torture, detenzioni arbitrarie, violenze contro le donne, sparizioni forzate, atti di giustizia sommaria, così come del clima generale di insicurezza e dell’assenza di Stato di diritto». Non sono bastati né il dispiegamento di una forza di interposizione composta dagli Stati dell’Africa centrale, né le pressioni della comunità internazionale sul nuovo presidente a far cessare le violenze.

Solo negli ultimi dieci giorni si sono registrati tre gravi episodi. Sabato 17 agosto, secondo quanto raccontano alcuni missionari, i giovani del villaggio di Bohong (80 km da Bouar, nell’ovest del Paese) si sono ribellati ai miliziani di Seleka dopo gli ennesimi soprusi e violenze. Ne sono nati scontri che hanno portato a numerosi morti sia tra i membri di Seleka sia tra la popolazione.
Il giorno successivo un convoglio inviato dalla diocesi di Bouar ha tratto in salvo il sacerdote e le suore che vivono a Bohong. Non appena i religiosi hanno lasciato il villaggio, i ribelli di Seleka hanno saccheggiato la casa parrocchiale, il convento e hanno bruciato le strutture utilizzate per il catechismo. «I ribelli hanno fatto razzia - racconta un missionario che chiede sia mantenuto l’anonimato -, hanno portato via quello che potevano dalla casa delle suore e del parroco; compreso il tabernacolo della chiesa con il Santo Sacramento, pensando che si trattasse di una cassaforte. Lo hanno consegnato a un sindaco musulmano e l’hanno aperto. Una volta aperto hanno trovato le ostie. Un muezzin ha detto loro di non toccare quelle cose altrimenti sarebbero incorsi in una grave punizione di Dio, così lo hanno riportato a Bohong. Il vicario generale della diocesi e una suora sono poi andati a verificare il tutto. Molte cose portate via da Bohong sono state viste dalla stessa suora al mercato musulmano di Bouar».

Giovedì 22 agosto, almeno 25 persone sono state uccise, decine sono rimaste ferite e centinaia sono state costrette alla fuga a Boy-Rabe, un quartiere di Bangui. Lo stesso giorno in un secondo attacco nel quartiere di Boeing, sempre a Bangui, altre 12 persone sono state uccise. In entrambi i casi si tratta di rappresaglie dei miliziani di Seleka nei confronti di presunti sostenitori dell’ex presidente François Bozizé.

«Il problema è che i ribelli sono sparsi in tutto il Paese ed è difficile contrastarli - conclude il missionario -. Mi ha fatto impressione andare da Bangui a Bouar. All’ingresso e all’uscita dei centri più importanti sono presenti militari stranieri armati e minacciosi. A noi occidentali chiedono solo chi siamo e dove andiamo. I centrafricani invece vengono fatti scendere dai camion, vengono perquisiti uno a uno e sono costretti a pagare la tassa di passaggio. Un cittadino non è più libero di circolare nel proprio Paese perché stranieri, con la forza e la violenza, li ostacolano e minacciano. Tutto questo suscita impressione e indignazione».
Enrico Casale

© FCSF – Popoli
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