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Repubblica centrafricana, anatomia di una crisi
12 novembre 2013
È una crisi complessa (e dimenticata) quella che da marzo sconvolge la Repubblica centrafricana. In gioco ci sono interessi economici, politici e religiosi che si intrecciano in una miscela esplosiva. A farne le spese, come sempre avviene in queste situazioni, è la popolazione civile.

La crisi
è scoppiata all’inizio dell’anno quando Seleka (alleanza, in lingua sango), una formazione di ribelli in maggioranza provenienti dalle regioni del Nord, ha lanciato un’offensiva verso Sud costringendo alla fuga il presidente François Bozizé. I ribelli contestavano al presidente la mancata cooptazione di alcuni loro esponenti nel governo. L’esercito centrafricano non solo non ha saputo contrastare l’avanzata, ma si è disgregato di fronte ai primi combattimenti. Solo il contingente sudafricano, da alcuni anni presente nel Paese per addestrare i militari, ha opposto una resistenza, pagando un prezzo alto. Tredici soldati di Pretoria sono morti negli scontri.

Preso il potere,
Seleka non si è sciolta. Le sue milizie si sono insediate sul territorio vessando le popolazioni civili con richieste continue di denaro, cibo, vestiti. Ma anche con violenze crescenti che hanno portato alla distruzione di villaggi, esecuzioni sommarie, minacce. Violenze che hanno assunto anche la connotazione di scontro interreligioso. La gran parte dei membri di Seleka è infatti di religione musulmana. Molti di essi non sono neppure centrafricani, ma sono mercenari ciadiani, nigeriani e sudanesi. Così, sempre più spesso, gli obiettivi dei loro raid sono state le missioni e i missionari cattolici. Neppure la presenza di truppe della Comunità economica degli Stati dell’Africa centrale (circa tremila uomini) è riuscita a evitare che il conflitto degenerasse.

Proprio per difendersi
dalle continue prevaricazioni dei miliziani di Seleka, le popolazioni centrafricane hanno iniziato a creare gruppi di autodifesa. E sono proprio questi gruppi di autodifesa che sono entrati in azione la scorsa settimana a Bouar, la seconda città del Paese. I combattimenti sono stati particolarmente violenti e hanno messo in evidenza due aspetti: la polarizzazione religiosa dei contendenti (Seleka sempre più connotati come militanti musulmani e i gruppi di autodifesa come cristiani) e l’ottimo addestramento di queste milizie locali di autodifesa. Ciò lascia intravvedere una escalation del conflitto anche grazie all’intervento di attori stranieri.

Ufficialmente le milizie armate di Seleka
sarebbero state sciolte dall’attuale presidente Michel Djotodia (che pure veniva dalle loro fila ed è anch’egli musulmano) eppure non solo non sono scomparse dalla scena, ma sono sempre più forti. Chi le arma? Difficile dirlo con precisione. Si sa che, fin dalle prime settimane del conflitto, queste milizie hanno ricevuto il sostegno (da loro sempre negato) di Sudan e Ciad. Con il trascorrere dei mesi e con la connotazione sempre più «religiosa» della crisi, non è neppure escluso che ingenti finanziamenti siano arrivati dalle organizzazioni islamiche che sostengono i movimenti integralisti africani e mediorientali.

L’ottimo addestramento
delle milizie di autodifesa fa intuire che anch’esse si muovano su input di potenze straniere che hanno interessi nel Paese. La Repubblica centrafricana è infatti ricca di legname, ma anche di risorse minerarie (oro e diamanti in particolar modo). In passato, ciò ha attirato l’attenzione del Sudafrica, potenza regionale con grande know-how nel settore minerario. Ma anche della Cina.

Sullo sfondo poi si muove
anche la Francia, ex potenza coloniale che ha sempre influito pesantemente sui fragili equilibri centrafricani e mantiene tuttora un contingente di 450 uomini a Bangui. Anche se non ha difeso l’ex presidente François Bozizé, favorendo la conquista del potere da parte di Seleka, Parigi non si espone e i suoi uomini preferiscono operare nell’ombra. È certo però che anche dalla posizione che assumerà la Francia dipenderà l’evolversi del conflitto.

Enrico Casale
© FCSF – Popoli