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L'Australia respinge di nuovo i rifugiati nel Pacifico
21 agosto 2013

Svolta a 180° dei laburisti al governo in Australia che hanno sconfessato le politiche di accoglienza dei richiedenti asilo nel tentativo di fermare i flussi e impedire agli stranieri in fuga di mettere piede sul territorio nazionale. Di fatto si sono allineati al precedente governo conservatore, che nel 2006 accusavano, per la stessa politica dei respingimenti, di macchiare la storia del Paese che si è formato sulle ondate migratorie.

Il 19 luglio i primi ministri di Australia e Papua Nuova Guinea hanno annunciato un piano di collaborazione, ufficialmente per combattere il traffico di esseri umani, ma che nei fatti rilancia la cosiddetta «Pacific Solution» del 2001 che dirottava nel Pacifico alcune migliaia di disperati provenienti dall'Asia.

Chi giunge in Australia per mare senza un visto d'ingresso, compresi minori e donne incinte, viene d'ora in poi mandato nei centri di accoglienza e detenzione predisposti al di fuori del territorio nazionale, in particolare nell'isola di Manus (Papua Nuova Guinea) e nella piccola isola-Stato di Nauru (21 kmq a tremila chilometri dall'Australia). In questi centri offshore i migranti non hanno accesso, però, ad alcun tipo di assistenza legale e rimangono in attesa, anche per periodi che possono durare cinque anni, di un visto permanente o di essere reinsediati in Paesi terzi.

Il Jrs Australia ha denunciato questa decisione, che viola gli impegni internazionali sottoscritti dal Paese fin dal 1951, creando un precedente pericoloso. «La nuova norma cancella di fatto dalla legge australiana il concetto di asilo per chi arriva per mare», ha commentato il direttore del Jrs, il gesuita Aloysius Mowe. Ma solo i Verdi nel parlamento federale di Canberra hanno cercato di apportare modifiche al provvedimento, per consentire ai media e alla Commissione nazionale per i diritti umani (Ahrc) di visitare i centri e per impedire la detenzione di minori. Tuttavia gli emendamenti sono stati respinti perché, secondo la maggioranza, violerebbero la sovranità di Nauru e Papua Nuova Guinea (Png), i due Paesi che ricevono i migranti. «Solo un modo per non assumersi le proprie responsabilità», aggiunge il responsabile dell'organizzazione dei gesuiti per i rifugiati.

Anche l'Acnur, il Commissariato dell'Onu per i rifugiati, osserva che la responsabilità principale dell'accoglienza per questi rifugiati resta dell'Australia. Secondo il sito dei gesuiti australiani Eureka Street, delegare alla Png l'accoglienza significa abdicare ai propri impegni internazionali. La Papua Nuova Guinea, infatti, ha quasi metà della popolazione sotto la soglia di povertà, è un Paese con scarse risorse per i suoi abitanti e già accoglie oltre diecimila rifugiati dalla Papua occidentale (la metà indonesiana dell'isola dove la situazione politica è precaria). Ciò nonostante è tenuta, con finanziamenti australiani, a garantire servizi, diritto al lavoro e all'istruzione ai rifugiati come ai propri cittadini, ma senza alcuna possibilità di uguagliare i livelli australiani. E a complicare la situazione c'è anche il mancato accordo tra Australia e Png sulla supervisione indipendente delle strutture nell'isola di Manus.

Il numero di boat people che cercano di approdare sulle coste australiane resta enormemente più basso del numero di rifugiati che, in fuga dalla Siria, hanno riparato nei Paesi mediorientali. Giordania e Libano da soli ne accolgono circa un milione. Per questo motivo il Commissario dell'Onu, Antonio Guterres, ha parlato di una paura gonfiata di presunte ondate di rifugiati verso i Paesi industrializzati. Il Jrs ha chiesto al governo di rivelare i costi reali dell'operazione: secondo l'organizzazione dei gesuiti, l'Australia, ospitando solo lo 0,3% dei rifugiati del mondo, spenderebbe l'equivalente di 1,5 miliardi di euro per i centri offshore. Mandare i richiedenti asilo nell'isola di un altro Paese sembra perciò molto più un annuncio per vincere le prossime elezioni che il rafforzamento delle procedure per dare sicurezza a chi chiede asilo.

Come nelle traversate del Mediterraneo, sono frequenti i naufragi. Tra i morti e i dispersi degli ultimi mesi si contano uomini e donne pakistani, afghani della minoranza hazara, iracheni. Dal 2009 a oggi 1.100 persone sono annegate nel tentativo di raggiungere l'Australia.

È più di un decennio che in Australia è in corso un dibattito controverso sul tema, da quando il governo dell'allora primo ministro conservatore Howard escluse in alcune piccole isole sotto sovranità australiana e naturale approdo dei boat people la possibilità di fare domanda di asilo.

Oggi il ministro della Giustizia, il laburista Mark Dreyfus, difende la legittimità della soluzione dei centri offshore. Justin Glyn, gesuita esperto di diritto internazionale, sulle colonne di Eureka Street non è dello stesso avviso: mandare i richiedenti asilo in un Paese limitrofo, molto più povero e violento e già incapace di dare accoglienza ai suoi rifugiati, si scontra con il diritto internazionale. Inoltre la soluzione è in contrasto con il fatto che in passato il 90% delle domande di asilo dei boat people è stata accolta.

Ancora più surreale la situazione del micro-Stato di Nauru che, da quando si è esaurita la miniera di fosfati che era la sua unica risorsa economica, vive di sussidi australiani per essersi trasformato in una discarica umana. Nasconde agli occhi degli australiani centinaia di indesiderati (come l'Australia stessa nell'Ottocento riceveva i galeotti dall'Inghilterra). Questi esiliati vivono in un mix di incertezza giuridica e condizioni disumane. In luglio nel centro di Nauru è scoppiata una rivolta con tentativi di fuga e 129 richiedenti asilo sono stati incriminati, facendo collassare il sistema giudiziario di uno Stato di diecimila persone.

In questo conflitto tra l'ideale universalista di una comunità mondiale basato sul senso di umanità comune e quello più ristretto di una comunità nazionale dotata di precisi confini, in Australia, come altrove, l'idea che la società prospera solo se tutelata con efficacia nelle sue frontiere è usata da entrambi gli schieramenti politici per dare una patina di ragionevolezza a politiche disumane di controllo dell'immigrazione. Il senso oggi tanto diffuso di violazione dei confini si è presentato spesso nella storia australiana, ma la comunità anglo-irlandese originaria ha dovuto progressivamente estendere il concetto di «australianità», aprendo nel tempo le porte a immigrati cinesi, ebrei, greci, a rifugiati esteuropei, cambogiani, vietnamiti e mediorientali. E il concetto allargato di che cosa significa essere australiani ha consentito di creare un Paese multiculturale di successo.

Francesco Pistocchini

© FCSF – Popoli