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Messico, tra le oasi di frontiera
10 dicembre 2014
Braccati come animali dalla polizia, trattati come merce dai trafficanti di esseri umani: i migranti al confine tra Usa e Messico raccontano storie di quotidiana sopraffazione, ma anche di speranza. Quella che trovano nelle numerose case di accoglienza aperte da religiosi e volontari laici, per restituire loro almeno la dignità.


Nogales è una città di 235mila abitanti divisa dalla frontiera: ci sono Nogales-Sonora, in Messico, e Nogales-Arizona, negli Stati Uniti. Una stessa città distesa in due nazioni. Più di 21mila persone negli Stati Uniti e «il resto» in Messico, divisi da una valle che si suppone invalicabile. Dal lato messicano, a un tiro di schioppo da Mariposa - di fatto, una garitta sulla frontiera - c’è la mensa dove le Suore missionarie dell’Eucaristia e i gesuiti danno da mangiare ai migranti due volte al giorno. È la mensa della Iniciativa Kino para la Frontera (in inglese Kino Border Initiative). 

Dall’altro lato della strada, sovrastata da un cartello nuovo di zecca che dà il benvenuto a Nogales, le suore gestiscono un dormitorio per donne che hanno bisogno di restare per un periodo relativamente prolungato. Poco più in là, addentrandosi nel nucleo urbano, c’è l’albergue (casa di accoglienza, ndt) San Giovanni Bosco, che nei suoi 31 anni di infaticabile servizio ha ospitato più di un milione di migranti. 

In un’altra zona c’è invece l’albergue Cristiano La Roca, dove il 9 luglio hanno fatto irruzione venti agenti della polizia statale e municipale. I poliziotti sono arrivati alle 11 di sera, incappucciati e armati fino ai denti. Hanno puntato le armi contro i venti migranti alloggiati lì e la famiglia salvadoregna che gestisce l’ostello. Li hanno costretti a inginocchiarsi e, gridando «il primo che si muove è fottuto», hanno rubato loro soldi, cellulari e tutti gli oggetti di valore. Quando si sono ritirati con il bottino, un migrante ha preso il telefono e ha denunciato il fatto al comando di polizia più vicino, ma ha ottenuto solo che la banda, avvisata della chiamata, è tornata a cercare chi aveva fatto la denuncia, ha fotografato i migranti uno per uno e ha minacciato di ucciderli se avessero fatto un’altra denuncia.
Ancora agitati e con gli occhi pesanti, la mattina seguente i migranti hanno raccontato l’accaduto agli operatori della mensa dell’Iniciativa Kino. 

Fa parte della violenza quotidiana. È una delle tante denunce che ogni giorno raccoglie suor María Engracia, che nel 2007 ha fondato quest’opera di apostolato dando continui­tà all’iniziativa di un gruppo di donne che ogni giorno cucinava tamales (piatto tipico messicano a base di pasta di mais, ripiena di carne o formaggio, ndt) da distribuire ai migranti. Suor Engracia racconta che prima «molti migranti dormivano nel cimitero, sulle tombe, perché lì la polizia non andava a infastidirli. Restavano lì anche tre mesi perché non avevano soldi». Oggi vanno ancora a pernottare lì quelli che restano a Nogales più a lungo delle tre notti offerte dall’albergue San Giovanni Bosco.

LA SUORA E LA TEQUILA
All’inizio il servizio coincideva di fatto con ciò che riusciva a fare suor Engracia da sola: sulla strada, distribuendo pasti che estraeva a ritmo vertiginoso da un contenitore piazzato su un camioncino. Era il periodo del boom dei rimpatri forzati dagli Usa a questo posto di frontiera. Suor Engracia dava da mangiare a più di 200 persone al giorno, con scarsissime risorse. Il suo aspetto minuto non basta a nascondere la sua impetuosa e accogliente forza interiore, come se, essendo nata nello Stato di Jalisco, il fuoco della tequila le scorresse impazzito nelle vene. Sa che si gioca la vita tutti i giorni? Sicuramente. Ma non è una questione da trattare con troppa solennità. La vicinanza e la quotidianità della violenza le imprimono un altro sapore. «Chissà come ti andrà», dice, con l’esperienza di chi conosce bene i rischi, a un migrante che le racconta che domani cercherà di attraversare la frontiera per la seconda o terza volta. 

Per quattro anni suor María ha lavorato con tutte le sue forze e con volontari occasionali. Oggi, grazie al sostegno della Compagnia di Gesù e della diocesi, la mensa può contare su strutture e su una squadra numerosa. Mariana e Armando sono i primi ad arrivare ogni mattina, dopo aver preparato i figli per andare a scuola. Sono una coppia itinerante, arrivano da Puebla e vivono al ritmo di questo lavoro. Mariana è in grado di preparare in pochi minuti, in un’enorme padella, 70 uova strapazzate e poi scaldare altrettante tortillas, mentre contemporaneamente sorveglia il monumentale bricco del caffè. E non si scompone troppo per il caos creato dagli infiniti disguidi nella sorveglianza, affidata al marito. Appostato accanto al portone di metallo, con la sua robusta presenza che quasi intimidisce, ma con una dolcezza particolare nella voce e nelle parole, Armando deve controllare che non si infiltrino trafficanti e truffatori. Ha un intuito infallibile.

Una volta che i migranti hanno preso posto, suor Alicia dice una breve preghiera e poi guida una specie di gioco: invita i migranti a immaginarsi di essere su una zattera e di dovere mettersi dei salvagente di carta, toccarsi l’orecchio sinistro con la mano destra e il naso con il dito indice sinistro e poi viceversa, ecc. Questo rituale apparentemente stupido sembra un’appendice surreale in un contesto disseminato di rischi mortali. Però funziona: ridono tutti, si scioglie il ghiaccio, la tensione si abbassa, si comincia a chiacchierare con il vicino di posto e per un momento ciascuno dimentica quel che è: uno che si porta dietro pene passate e timori ben fondati. In fin dei conti tutti sono sulla stessa zattera, e i salvagente sono deteriorabili quanto la carta. Suor Alicia compie un miracolo ogni giorno: ripete le sue dinamiche con la stessa passione e serenità della prima volta.

PERCHÉ SI PARTE
Poi interviene suor Engracia. Invita gli ospiti a denunciare le violazioni dei diritti umani che hanno subito. Così si raccolgono le storie che portano dati a Fundar (www.fundar.org.mx), un centro di analisi impegnato nella difesa dei diritti umani. Questo microscopio permette di vedere che non sono solo la disoccupazione e il bisogno di riunire la famiglia a spingere i migranti verso una nuova terra. Emerge anche la violenza, con i suoi molteplici volti: domestica, politica, istituzionale, mafiosa, quella delle bande criminali...

Tra i centroamericani, sono ancora evidenti i postumi delle guerre civili che hanno insanguinato i loro piccoli Paesi fino ai primi anni Novanta. È come se gli artigli del dopoguerra fossero ancora ben piantati nel collo di una regione che non riesce a rimanere a galla: capi banda con corsie preferenziali nella polizia, corruzione a cielo aperto, membri di milizie attive nella repressione degli anni Ottanta riciclati nelle scorte dei traffici di coca, kaibiles (soldati di élite dell’esercito del Guatemala, addestrati per condurre operazioni speciali durante la guerra civile, ndt) addestrati dall’organizzazione criminale dei Los Zetas a uccidere in modo atroce. In Messico la violenza del narcotraffico, non placata anzi fomentata dai militari incaricati di troncarla applicando la legge del taglione, negli ultimi dodici anni ha sviluppato un’irresistibile forza propulsiva. 

Altre fonti rivelano che molti migranti viaggiano in treno, ma non sono la maggioranza. Anche chi ricorre a questo mezzo non lo usa per tutto il tragitto. Tra i centroamericani che transitano per il Messico quelli che usano il treno sono solo il 10-15%. Gli autobus sono il mezzo più utilizzato e più sicuro. 

Molti di quelli che sono già stati rimpatriati - il gruppo più numeroso presente alla mensa - hanno viaggiato lungo la costa orientale e sono entrati negli Stati Uniti dallo Stato messicano di Tamaulipas, verso il Texas. Alcuni sono entrati da McAllen, altri da Laredo. Il principale corridoio di passaggio per i centroamericani non è più quello di Tucson, a cui corrisponde Nogales, ma McAllen, anche se Tucson, con il suo temibile deserto, resta la zona che fa più morti oltre che quella più usata per i rimpatri, con la strategia di dividere i gruppi per scoraggiare ulteriori tentativi di ingresso. 

Alcuni degli utenti della mensa sono stati catturati a Calexico o a McAllen, separati dai familiari e amici con cui viaggiavano e poi trasferiti a Nogales per essere rimpatriati attraverso la stazione di Deconcini. Sono tra gli ultimi a essere stati deportati da questo punto di controllo. Il 15 ottobre il governo messicano ha inaugurato l’ampliamento della stazione di Mariposa - la più vicina alla mensa -, costata 200 milioni di dollari. Lì è stato creato un chilometrico tunnel reticolato per evacuare i detenuti dell’Immigration and Customs Enforcement (Ice), chiamato anche «la migra». In fila indiana e con biglietto di sola andata qui cammineranno inermi migliaia di uomini, donne e bambini, nelle viscere di una colossale gabbia di ferro, che sembra progettata per contenere i morsi di tanti Hannibal Lecter.
Informazioni come queste vengono comunicate mentre i migranti fanno la loro abbondante colazione, servita dall’associazione Samaritani del Green Valley: insieme a due novizi gesuiti, sono al lavoro tre giovani volontarie, una statunitense, una colombiano-statunitense e una arrivata dalla lontana Repubblica Ceca, dove lavorava per il museo del Castello di Praga. Collaborano tutte in altri servizi, non essendo meno meritorio né meno umile dedicarsi a tagliare pomodori e peperoncino per meglio conservarli sotto forma di una succulenta salsa rossa. 

BIGLIETTI DI SOLO RITORNO
Con la coordinatrice Marla Conrad, tutte riescono a offrire ai migranti una conversazione fraterna che li fa sentire meno parte di una massa di deportati e li restituisce all’essere umano che sono: una madre con due figli nella scuola secondaria, musicisti di un piccolo gruppo, catechisti, sarti, panettieri, bambini in cerca della propria madre, tassisti in cerca di nuovi orizzonti.

Tra una chiacchiera e l’altra si svolgono gli altri servizi a cui la mensa si dedica. Vengono distribuiti prodotti per l’igiene personale, indumenti e scarpe in ottimo stato. Il novizio, che è anche un medico, presta le cure necessarie e possibili. 

Il console messicano fornisce ai migranti del suo Paese biglietti di ritorno verso i loro villaggi, prendendo le impronte digitali e altri dati, un «regalo» che il governo messicano farà loro una sola volta nella vita. Un nordamericano che sembra un sopravvissuto della beat generation regala quello che, per migranti che si muovono a piedi, è un tesoro: stringhe per le scarpe. Una coppia più anziana raccoglie latte e altri prodotti vicini alla data di scadenza donati da supermercati della zona. L’associazione No más muertes («Mai più morti»), che probabilmente detiene il record di suoi membri in prigione per aver portato acqua nel deserto lungo la rotta dei migranti, regala telefonate per facilitare la riunificazione di quelli che la migra ha diviso deportandoli in punti diversi. 

La mensa è situata in quella che sembra essere una terra di nessuno, ma che in realtà non lo è. Ha dei padroni. Due padroni. Dalla parte messicana, i «falchi» controllano tutti i più piccoli movimenti. «Falchi» o «punti» sono i nomi con cui vengono chiamati i peones dei cartelli criminali che si appostano e avvisano nei momenti in cui la vigilanza di frontiera è scoperta per far passare i carichi di droga e permettere il transito ai migranti riscuotendo un pedaggio. 

L’altro lato, quello statunitense, è proprietà di fatto della Border Patrol, la Polizia di frontiera, che ha licenza di disporre di cose e persone. È quel che dimostra quando spara contro civili dalla parte messicana, una pratica sempre più comune e che è costata la vita a José Antonio Elena Rodríguez, uno studente di 16 anni crivellato di colpi da un agente della Border Patrol. La notte del 10 ottobre 2012, dopo una partita di basket, José Antonio camminava sul marciapiede della Calle Internacional, che corre parallela al muro di frontiera. Abitanti del luogo hanno sentito tra i 14 e i 30 spari di fucile. Da una torretta di vigilanza, un agente ha centrato José Antonio con due proiettili mortali e lo ha finito con altri otto, la maggior parte nella schiena. Il governo Usa non ha nemmeno rivelato l’identità dell’assassino. Ma la madre del ragazzo ha presentato una denuncia con il sostegno dell’American Civil Liberties Union. 

UNA CANZONE PER JOSÉ
Natalia Serna, volontaria della mensa, ha dedicato a José Antonio una delle sue canzoni più belle e commoventi, Yo me llamo José Antonio (Mi chiamo José Antonio), che si può ascoltare su YouTube. Comincia così: «Il Paese dell’altra parte è ladro e vigliacco. Non ha voluto metterci la faccia e si è rubato la mia vita. Quanti sorrisi mi hanno tolto in questa notte di orrore. Si son presi la mia vita, ma non il mio cuore».

Nogales è dominata dai narcos e dalla polizia di frontiera. Due presenze letali che sono l’incubo peggiore dei migranti. Gli uni per senso del dovere: il dovere di difendere una linea di frontiera che non percepiscono come una convenzione politica ma come un campo di battaglia. Gli altri per senso degli affari, poiché per loro i migranti sono una merce.

Lo spiega bene padre Alejandro Solalinde, direttore di un’altra casa di accoglienza per migranti, l’albergue Hermanos en el camino (Fratelli nel cammino), situato a Ixtepec, Oaxaca, nel Sud del Messico: «Sono vittime della voracità umana. È questo più che altro. È il fatto che non li vedono, insisto, perché non sono persone educate a vederli come esseri umani, a occuparsi di loro, ma li vedono come mercanzia. Allora bisogna prendere loro i soldi, in qualunque modo, con le botte, come viene, prendere i soldi» (cfr Humberto Márquez Covarrubias, «Un soplo de vida digna para los caminantes centroamericanos en México», Migración y desarrollo, n. 22/2014, p.186).

In mezzo a questi due fuochi, la mensa dell’Iniciativa Kino, le donne di Las patronas che allungano il cibo ai migranti che passano in treno, l’albergue San Giovanni Bosco, gli Hermanos en el camino, la Posada Belén gestita da padre Pedro Pantoja e le tante altre iniziative, sono oasi che rigenerano le energie e le speranze dei migranti, oasi tenute vive da persone che rischiano la pelle ogni giorno per restituire la fraternità al mondo.

José Luis Rocha 

© FCSF – Popoli