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Ucraina: le Chiese cristiane in un Paese diviso
3 marzo 2014

La rivoluzione politica scoppiata a Kiev in novembre e sfociata nella cacciata del presidente Yanukovich e nella crisi in Crimea è lo specchio delle fratture ucraine. Nella culla della cristianità slava la geografia religiosa deriva da una storia complessa in bilico tra Occidente e Oriente europeo. Pubblichiamo l'articolo di Matteo Tacconi che esce sul numero di marzo di Popoli, in distribuzione in questi giorni agli abbonati e nelle librerie.

 

Ogni protesta, ogni rivoluzione, ha bisogno di immagini emblematiche che la fissino nel tempo. Forse la recente crisi ucraina, esplosa a novembre a causa del rifiuto del presidente Viktor Yanukovich degli incentivi economico-commerciali europei, non è stata propriamente una rivoluzione. Ma neanche una semplice protesta, vista la piega violenta che ha preso. In ogni caso, a prescindere dall’esito, ancora incerto mentre scriviamo, ha già i suoi fotogrammi simbolici: quelli dei religiosi armati di croci, testi sacri e icone che si frappongono tra manifestanti e forze di sicurezza o che presidiano la Maidan Nezalezhnosti, la piazza di Kiev dove anche questa storia, come la rivoluzione arancione del 2004-2005, è cominciata.

I religiosi appartengono a due comunità: la Chiesa ortodossa - patriarcato di Kiev - e quella greco-cattolica. Perché erano in piazza? Il fatto è che l’Ucraina è una terra complessa, attraversata da faglie di civilizzazione che, quando sale la tensione, tendono a dilatarsi e così facendo rendono più netti i punti di vista. Insomma, ci si schiera.

Fu così al tempo della rivoluzione arancione (2004), è così adesso. In entrambi i casi, i cattolici di rito orientale e il patriarcato di Kiev hanno sostenuto il blocco nazionalista-europeista. Ha assunto la stessa posizione la Chiesa autocefala ucraina, un’altra comunità ortodossa. La terza componente dell’ortodossia, la Chiesa ortodossa ucraina - patriarcato di Mosca -, la più influente e l’unica riconosciuta canonicamente dal patriarcato di Costantinopoli, ha invece scelto di non ripudiare Yanukovich e il segmento di Ucraina che lo sostiene, tendenzialmente favorevole a rapporti stretti con la Russia.

LA TERRA BUSSOLA POLITICA
Gli approcci delle Chiese ucraine si intrecciano con le rispettive proiezioni geografiche. La tradizione greco-cattolica affonda le radici nelle regioni dell’Ovest, in modo particolare in Galizia. È lo spicchio di terra, a lungo sotto dominazione polacca e poi asburgica e con Leopoli capoluogo, che costituisce il centro d’irradiazione del pensiero nazionalista ucraino. Orientamento politico che, logicamente, sottende un’avversione alla Russia. I greco-cattolici a loro modo se ne fanno interpreti. La Chiesa ortodossa - patriarcato di Kiev - e quella autocefala si posizionano circa sulla stessa lunghezza d’onda e curano anch’esse più anime nei distretti occidentali che in quelli orientali.

Al contrario la Chiesa ortodossa - patriarcato di Mosca -, guidata dal metropolita Volodymir, ha i piedi piantati a Est e Sud, dove i legami storici e linguistici con la Russia si manifestano con più evidenza. Questo non significa che non sia presente anche a Occidente: del resto, come detto, è la principale comunità ortodossa del Paese. Ha più parrocchie delle altre e più seguito tra i monasteri, che negli equilibri ortodossi contano molto. Contrariamente a quello che si crede ha anche una certa autonomia. Non è il «clone» ucraino del patriarcato di Mosca.

Fede, politica e culture: i fili sono difficili da sciogliere. Occorre andare indietro nel tempo, fino all’ultima parte degli anni Novanta, alla vigilia del crollo dell’Urss, se si vogliono capire le origini del confronto ucraino e del coinvolgimento delle Chiese. Partiamo da quelle ortodosse. Con l’eccezione della Chiesa autocefala, che è marginale, all’epoca gli ortodossi ucraini erano in comunione con il patriarcato russo. Il loro metropolita, Filaret Denysenko, molto legato agli ecclesiastici di Mosca, aveva sempre promosso il contenimento del nazionalismo ucraino e della Chiesa greco-cattolica, che trovarono un’inattesa linfa nella perestrojka di Gorbaciov.

Oggi Filaret è a capo della Chiesa ortodossa - patriarcato di Kiev -, schierato in politica con coloro che aveva combattuto duramente in passato. È diventato nazionalista. La svolta matura nel maggio 1990, quando muore il patriarca di Mosca Pimen. Filaret si candida alla successione, convinto di farcela, ma viene affossato. Reagisce duramente e pianifica lo strappo, sfruttando il fatto che nel frattempo l’Ucraina è diventata indipendente (1991) e il suo primo presidente, Leonid Kravchuk, deve «rifarsi il trucco», smarcandosi dai lunghi trascorsi nel Partito comunista sovietico, di cui era il luogotenente a Kiev. Dà così impulso al discorso nazionale, fino a quel momento tenuto a freno dall’ideologia marxista-leninista.

A questo scopo anche una Chiesa che limiti quella russa e dunque l’influenza di Mosca, può tornare utile. È così che Filaret, portandosi dietro i suoi sostenitori, confluisce in quella ortodossa ucraina autocefala, che negli anni della perestrojka stava rinascendo in forma semiclandestina, dopo essere stata tenuta in vita dagli esuli, soprattutto in Nord America. Pare che in quella operazione ci fosse la mano del Kgb, che voleva un contrappeso ai greco-cattolici in grado di indebolire la coesione del rinascente fronte nazionalista e indipendentista. Ma tant’è. La notizia è che Filaret contribuisce a creare una Chiesa «alternativa».

Nel corso di pochi anni anche questa stessa Chiesa si spacca, in seguito all’elezione a patriarca di Filaret nel 1995. Qualcuno, ricordandone il passato da fustigatore dell’ucrainità, prende le valigie e ritorna allo schema della Chiesa ortodossa autocefala.

KIEV LA SANTA
In questi anni Filaret ha cercato di ottenere il riconoscimento canonico della sua Chiesa, contando sull’appoggio prima di Kravchuk e poi di Viktor Yushchenko, anima della rivoluzione arancione. Sforzo vano: il patriarca di Costantinopoli - colui che ha titolo di riconoscere una Chiesa - non l’ha accontentato, anche perché ha sempre riscontrato la dura opposizione delle gerarchie moscovite. Dal loro punto di vista i piani di Filaret sviliscono la santità di Kiev, dove ai tempi della Rus’, il primo Stato russo della storia, avvenne la conversione dei russi al cristianesimo orientale.

Kiev è irrinunciabile anche per il Cremlino. Un’Ucraina agganciata all’Occidente sarebbe un disastro strategico, dato che porterebbe gli euro-atlantici a ridosso delle frontiere della Russia, facendole perdere il rango di potenza. C’è dunque una convergenza di interessi tra Cremlino e patriarcato, che si esplicita nella comune propensione, tuttavia non acritica, a sostenere Yanukovich contro l’asse europeista-nazionalista.

E la Chiesa greco-cattolica? Vissuta in forma catacombale durante l’epoca comunista, con l’indipendenza ha sposato la causa nazionale, come gli ultimi eventi hanno (ri)testimoniato. Nazionale è anche il respiro che la comunità, guidata dal 2011 dall’arcivescovo maggiore Sviatoslav Shevchuk, sta cercando di darsi. Lo spostamento della sede da Leopoli a Kiev, avvenuto nel 2005, riflette l’ambizione di allargare il raggio d’azione oltre il tradizionale perimetro delle regioni occidentali del Paese. Il patriarcato di Mosca ne è disturbato. Si apre perciò un’altra questione, perché la contesa tra greco-cattolici e ortodossi non riguarda solo la politica interna ucraina, ma investe i rapporti tra Vaticano e patriarcato di Mosca. Quest’ultimo vede negli «uniati» (termine con cui spesso vengono chiamati i cattolici di rito orientale) una longa manus pontificia, un’insidia nell’area di influenza ortodossa. È il nodo critico tra le due confessioni, che comunque, negli ultimi tempi, hanno cercato di dare impulso al dialogo. Non senza costrutto.

Ma Roma, nell’ex repubblica sovietica, deve guardare anche a un’altra faccenda delicata, tutta interna al suo gregge. E cioè iol fatto che, a conferma di quanto lo scenario ucraino sia frastagliato e non facilmente riconducibile a schemi rigidi, tra greco-cattolici e cattolici latini non esiste grande sintonia. I secondi, circa quattro milioni, sono legati alla tradizione storico-culturale polacca. Si dà il caso che nel Novecento polacchi e ucraini, in Galizia e nella vicina Volinia, si sono combattuti senza pietà. Il nazionalismo ucraino trae origine anche da quelle esperienze.

La storia porta in dote elementi di diffidenza, quindi. Politicamente si sono tradotti, all’epoca della rivoluzione arancione come oggi, con una posizione molto guardinga da parte dei cattolici latini. Questi hanno osservato con qualche riserva l’enfasi greco-cattolica sul discorso nazionale, ricordando che l’Ucraina è multietnica e multiconfessionale. Come a dire che gli squarci, se troppo profondi, non possono essere più rammendati.

Matteo Tacconi

© FCSF – Popoli