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Nelson Mandela, l'uomo dell'inclusione
27 dicembre 2013
Quale eredità lascia al suo Paese e all'Africa Nelson Mandela, scomparso il 5 dicembre, leader della lotta contro l'apartheid e primo presidente nero del Sudafrica? Anticipiamo un commento di Enrico Casale, in uscita sul numero di gennaio di Popoli.


Quale eredità ci lascia Nelson Mandela? Spenti i clamori mediatici per la morte, avvenuta il 5 dicembre, di un’icona (forse l’ultima che ci ha lasciato il Ventesimo secolo) è giusto interrogarsi sui valori che ci trasmette una vita, come quella di Mandela, vissuta all’insegna della lotta alla segregazione razziale.

La prima eredità è quella della non-violenza. Mandela, a differenza del Mahatma Gandhi, non optò mai per un pacifismo radicale. Anzi, negli anni Cinquanta, di fronte alla messa al bando dell’Anc, fondò Umkhonto we Sizwe (Lancia della nazione), l’ala armata del suo movimento, diventandone il responsabile nel 1961. Fu una reazione alla violenza del regime e un tentativo estremo di difesa dei diritti della maggioranza nera schiacciata dal sistema dell’apartheid. Nei lunghi anni della prigionia rivide però la sua posizione sulla necessità di adottare metodi violenti. Si attestò così su tesi di confronto pacifico, ma fermo, nei confronti di uno Stato che aveva fatto dell’oppressione della popolazione nera il suo collante e la sua stessa ragion d’essere. La non-violenza divenne uno strumento cardine dell’azione politica di Mandela e degli stessi rapporti che ebbe nei confronti dei carcerieri nel penitenziario di massima sicurezza di Robben Island in cui era recluso.

In questo atteggiamento c’è chi ha visto una forte influenza della sua formazione cristiana (Mandela studiò in scuole metodiste). Difficile dirlo, ma certamente fu questa sua convinta adesione ai valori della non-violenza a disarmare il desiderio di vendetta di molti neri. Così come fu questo suo atteggiamento a creare quel carisma unico che gli è stato riconosciuto anche dagli avversari (compreso l’ultimo presidente dell’apartheid, Frederik Willem de Klerk) e che fu uno dei fattori determinanti nelle trattative per la fine del regime segregazionista.

Un’altra grande eredità che lascia Madiba è la sua strategia dell’inclusione che è stata ben riassunta nel concetto di «nazione arcobaleno». Da un uomo che ha combattuto contro un regime che lo ha vessato e imprigionato per 27 lunghi anni, ci si sarebbe potuti aspettare una reazione dura nei confronti dei suoi avversari. Mandela invece rifiutò la vendetta. Porse la mano ai suoi vecchi nemici e offrì loro di collaborare nella gestione del Paese. Qualcuno ha letto in questo suo atteggiamento una vena di opportunismo: Mandela era conscio che senza la collaborazione della minoranza bianca, che comunque deteneva le leve del potere finanziario ed economico, non avrebbe mai potuto governare il Sudafrica. Forse c’è del vero in questa tesi. Però in un continente nel quale la lotta politica si riassume quasi sempre nell’esclusione dell’avversario, il suo progetto di inclusione è stato un modo per affermare che il tribalismo violento (anche nei confronti dei bianchi) può non essere la norma. Mandela ha indicato la strada (al momento ancora poco seguita) di una riconciliazione che non è, in alcun modo, una negazione delle istanze di riscatto della popolazione nera.

Mandela, infine, ci ha insegnato che un politico, pur amato e con un grande consenso come era lui, può e deve sapersi staccare dal potere. Al termine del primo mandato avrebbe poturo ricandidarsi, non lo fece. Aveva capito che il tempo per l’impegno nella politica attiva era scaduto. Con grande spirito di servizio continuò a lavorare per il Sudafrica attraverso la sua fondazione, ma lontano dalla ribalta. Una lezione che molti politici (non solo africani) dovrebbero fare propria.
Enrico Casale



© FCSF – Popoli
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